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Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.

In Ponti di vista, Uncategorized on aprile 16, 2016 at 5:54 am

“E’ la storia di una società che precipita e mentre sta precipitando si ripete per farsi coraggio: fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.” Mathieu Kassovitz e La haine (L’odio) sono stati nel 2015 d’ispirazione per un piccolo lavoro d’inchiesta collegato al Festival delle Resistenze contemporanee. La licenza di estrapolare una parte del monologo conclusivo era frutto di una scelta consapevole (e non di una dimenticanza) che puntava a valorizzare storie positive che guardano al futuro con speranza . A posteriori non metto in dubbio quella decisione ma credo che oggi meriti una riflessione aggiuntiva.

Presentando l’iniziativa – era il 26 aprile 2015 e il flusso di migranti verso il nord Europa era già costante – feci riferimento alla necessità di una responsabilità diffusa nell’accoglienza per uomini e donne che si trovavano (si trovano e, probabilmente, si troveranno) a transitare nelle province di Trento e Bolzano alla ricerca di un’esistenza dignitosa. L’Associazione Binario 1 prestava già servizio, e lo fa ancora con la stessa passione e costanza. Fino a qui tutto bene.
Qualche mese dopo passai una giornata al Brennero. Il clima era sereno. Un luogo di confine che – visto allora – conservava ancora le caratteristiche del margine sfumato e permeabile, certo molto diverso da quello nervoso e militarizzato di queste settimane. Un “global village”, così lo descrissi, perché grazie all’intervento della Cooperativa Atelier era presidio di confine attento ai temi dell’intercultura, dell’incontro con il diverso da sé, della creazione di Comunità basata sull’interlocuzione tra le diverse comunità presenti. Fino a qui tutto bene. Di nuovo.

E’ passato circa un anno da quei giorni. Il tema della caduta, che avevo tenuto in scarsa considerazione nella mia ipotesi narrativa, si è preso oggi prepotentemente il centro della scena. A cadere è l’Europa. O quel che ne rimane. Lo testimoniano le immagini che ci arrivano ogni giorno dal campo profughi di Idomeni o anche la solo lettura dell’accordo stipulato con la Turchia per appaltarle la “gestione” dei flussi migratori prima che possano cercare di raggiungere e varcare i confini esterni dell’Unione. Potente sottolineatura ne sono le barriere  – compresa quella, per il momento dai tratti più provocatori che reali, prevista dal governo austriaco al Brennero – che tornano a lacerare, non solo sulle mappe, lo spazio europeo. Uno spazio sempre più frammentato e confuso. Uno spazio sociale e politico che vede l’avanzare sempre più incerto di governi nazionali (come ebbe a dire Angela Merkel ricordando le parole dello storico Christopher Clark) sempre più simili a sonnanbuli. Come nel 1914 alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, così oggi.

Tante sono le azioni simboliche che certificano la generale percezione della pericolosità della fase che stiamo attraversando. Le proteste di chi si oppone al riemergere dei confini, le numerose iniziative di solidarietà e assistenza nei confronti dei migranti in difficoltà e le altrettanto numerosi voci che, anche da punti d’osservazione autorevoli, denunciano la fragilità (o meglio l’inesistenza) di un progetto comune europeo. Eppure la consapevolezza non riesce a spingersi oltre la legittima e necessaria testimonianza, incapace da sola – come ci suggerisce Roberto Esposito* – di sanare “lo iato tra le sue [dell’Europa] pretese universalistiche e i suoi ripiegamenti nazionalistici”. A prevalere è un’inerzia esasperante e colpevole, dentro la quale sembrano “tutti impegnati a chiedersi quale possa essere il colore più consono per ritingere la cancellata del giardinetto che si sono impegnati a coltivare, lì, sul fianco di un vulcano tremante e fumante”. Così dipinge i governanti europei Frédéric Lordon, uno degli animatori di #nuitdebout, movimento nato sulla spinta dell’opposizione alla riforma delle leggi sul lavoro proposta dal governo Hollande e ora attivo in diverse piazze francesi. Non dentro una logica strettamente rivendicativa ma – ambiziosamente – costituente di una visione altra di mondo.

L’Europa vive da tempo dentro un processo di manutenzione straordinaria tardiva e inefficace. Un agire perennemente emergenziale, che ne ha logorato lentamente i tratti ideali e ne ha intaccato le prospettiva di lungo periodo. Lo stesso richiamo alla difesa del Trattato di Schengen o al recupero delle idee contenute nel Manifesto di Ventotene appare oggi non del tutto sincronizzato con i tempi nuovi che il continente sta affrontando. Un continente che – riprendendo ancora Esposito – fatica a “confrontarsi con un mondo non più governabile in base ai propri interessi” e evita accuratamente di guardare oltre se stesso. L’Europa non è altro che un punto dentro la sfera terrestre, un’enorme superficie curva senza bordi. Il confinamento è un paradosso dunque, un tentativo inutile di chiusura mentre flussi sempre più potenti e pervasivi innervano la nostra quotidianità, modificano il nostro modo di intendere le relazioni, contribuiscono a disegnare le caratteristiche del nostro contesto a venire. L’Europa non si salva da sola. L’Europa non si salva compiacendosi del proprio passato. Serve un nuovo slancio che proponga scenari caratterizzati da equità, giustizia sociale, economie collaborative e resilienti, politiche inclusive e solidali, modelli di cittadinanza aperti e universali, sistemi di governance che sappiano coniugare territorialità e globalità, valori e strumenti democratici che sappiano valorizzare la partecipazione e rendere generativo il conflitto, senza esserne spaventati. Non bastano piccoli aggiustamenti. Va data forma al “non ancora”, che proprio per la sua indeterminatezza non si può trovare in routinarie operazioni di gestione e aggiornamento dell’esistente. L’Europa è (e sarà) solo se sperimenta l’inedito, il non ancora visto, ciò che sa generare stupore e creare un reale passaggio di discontinuità rispetto a ciò che fino a oggi – a livello politico, economico, sociale e culturale – abbiamo dato per scontato e privo di alternativa. Serve il coraggio dei visionari, il passo paziente e curioso degli esploratori, lo sguardo votato al futuro degli innovatori. Solo così si potrà avere un cambio di rotta radicale dentro un’interminabile caduta che si approssima a un doloroso atterraggio.

*Roberto Esposito, “Da fuori” – Einaudi (2016)

f.

– Articolo pubblicato sul Corriere del Trentino, 16 aprile 2016 –

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