*articolo pubblicato originariamente all’interno del progetto “L’ultimo Europeo?”
L’ultima volta che ero stato a Parigi correva l’anno 2006. Primavera. Era il periodo delle proteste – poi risultate vincenti – contro il CPE (contratto di primo impiego che permetteva il licenziamento senza motivazione per lavoratori sotto i 26 anni, nei primi due anni di contratto) proposto dal governo guidato da Jacques Chirac. Torpedone dall’Italia di gruppi interessati a capire cosa stava avvenendo oltre confine. Andata e ritorno praticamente in giornata, una follia insomma. Non fu da meno la manifestazione. La nostra delegazione, insieme allo spezzone degli intermittenti dello spettacolo francesi, si diresse – corsetta appena accennata – verso una fiera del lavoro interinale con l’idea di occuparla, percorrendo un lungo boulevard in leggera discesa. A un certo punto, ancora lontani dall’obiettivo, ci accorgemmo che dalle scalinate della Metrò – poste ai lati della carreggiata – stavano cominciando a emergere piccoli gruppi di ragazzi vestiti di nero (che solo dopo qualificammo come casseurs) che, senza nemmeno tentare di interagire con il corteo, cominciarono a sfasciare tutto. Vetrine, auto, cabine telefoniche. La nostra manifestazione si concluse lì, una volta “conosciuti” alcuni degli abitanti dei quartieri nord parigini venuti in centro per l’occasione. Non si era ancora esaurita l’onda lunga dell’esplosione di rabbia delle banlieus parigine – e poi più di larga parte della francesi – a cavallo tra il 2005 e il 2006. Per settimane il primo ministro De Villepin e l’allora ministro degli interni Sarkozy tentarono di arginare, molto spesso violentemente, un fenomeno sociale e politico che raggiunse dimensioni considerevoli (centinaia di auto e palazzi incendiate ogni notte, scontri diffusi) prima di rientrare dentro i canali carsici delle periferie urbane delle maggiori città di Francia. Vene pulsanti – di culture, di storie di vita, di frustrazioni – dentro le quali è ancora estremamente accesa la tensione tra centro e periferia e tra inclusi ed esclusi.
Sono tornato a Parigi in un periodo di nuove leggi speciali. Charlie Hebdo e il Bataclan sono ancora troppo vicini per essere rimossi dalla memoria dell’opinione pubblica francese, che pure attorno a quei simboli sembra oggi un po’ più distratta e distante. Dopo gli attentati del 13 novembre 2015 l’état d’urgence (Legge nº 385 del 3 aprile 1955) è stato prorogato a più riprese, arrivando oggi a estendersi fin oltre il periodo di svolgimento di Euro2016 e del Tour de France. Il governo (il Presidente Hollande e il premier Manuel Valls) agisce da mesi in un clima di tensione – figlio anche del netto e costante calo di consenso e fiducia, oggi ai minimi storici – che trova nell’utilizzo prolungato della legislazione emergenziale una rappresentazione piuttosto eloquente della contingente difficoltà. Un abuso dello stato di eccezionalità che, partendo dalla necessità di far fronte alle minacce terroristiche messe in campo da IS, ha teso nelle ultime settimane ad allargare il proprio spazio d’azione anche nei confronti delle mobilitazioni in opposizione alla Loi Travail (legge di riforma del diritto del lavoro, paragonata al nostro Jobs Act) e all’esperienza di piazza della #nuitdebout. La mia presenza in Francia – in ogni caso troppo breve – aveva l’obiettivo di costruire un racconto combinato tra l’avvicinamento ai Campionati Europei di calcio e la particolare situazione sociale e politica francese degli ultimi mesi. In queste pagine troverete qualche spunto di riflessione.
Il clima – quello atmosferico – non mi ha aiutato. Pioggia praticamente ininterrotta, temperature molto più che autunnali. I piedi perennemente a mollo nel percorso che porta da Belleville verso Place de la République, uno dei punti nevralgici delle proteste e luogo altamente simbolico nella vita comunitaria parigina degli ultimi mesi. Telecamera quasi inutilizzabile – sostituita da una GoPro almeno per portare a casa qualche immagine di contesto – e difficoltà nel rintracciare nelle piazze semivuote testimonianze privilegiate per il mio lavoro d’inchiesta. Perché il maltempo (almeno quanto gli scioperi di queste settimane) ha rischiato di bloccare davvero Parigi e parte della Francia. Si è fermato il Roland Garros – nessun punto giocato per quasi due giorni, non accadeva dal 2000 – così come i musei del Louvre e D’Orsey, minacciati dal livello crescente della Senna. Non potevano non subire una battuta d’arresto anche le iniziative dei movimenti francesi, che delle piazze fanno il loro necessario luogo di incontro e di azione. Uno stop temporaneo dal quale già in queste ore si stanno riprendendo, tale è il bisogno di ritrovarsi e di stare insieme restituendo a Place de la République il ruolo di catalizzatore della socialità e non solo della memoria e dell’elaborazione del lutto.
Nota conclusiva sulla questione pioggia. Nei tragitti aerei di andata e ritorno ho cominciato a leggere l’interessante romanzo di Bruno Arpaia “Qualcosa, la fuori” (ed. Guanda). Una fiction apocalittica che ci mette in guardia – se non lo siamo già – rispetto ai rischi dei cambiamenti climatici. Un’Europa in via di desertificazione attraversata da carovane di migranti ecologici è lo scenario prodotto dall’autore per raccontarci il futuro prossimo (non auspicabile, ma prevedibile) del nostro continente. Eppure anche solo il “monsone” che ha colpito Francia e Germania nelle ultime settimane è sufficiente ad offrirci lo spaccato di un equilibrio ambientale fortemente compromesso. E se dopo la decisione – quasi obbligata – di spostare temporalmente il Mondiale qatariota del 2022 nella stagione invernale non fossero più al sicuro ne le collocazione estive dei grandi eventi sportivi anche nell’emisfero boreale? Come è lontano il 2022…
Il clima politico e sociale è invece quello che mi sono sforzato di osservare, grazie all’aiuto di una serie di incontri di fronte a un caffè o una birra al bar Aux Folies, a due passi dalla casa dove nel 1915 nasceva Edith Piaf e dai locali nei quali iniziò, da giovanissima, a cantare in pubblico. Un quartiere – Belleville – un tempo parte della periferia agricola di Parigi e oggi vitale, e in parte gentrificato, crocevia di culture e attività commerciali per lo più asiatiche e arabe. Una delle molteplici dimensioni di una città che riesce a trasmettere tutta la complessità della metropoli, sotto forma di diversi livelli tra loro sovrapposti così come nello schema delle innumerevoli linee della metropolitana che si articolano nel sottosuolo parigino. La città è un corpo fluido in continua mutazione, capace di cambiare faccia nell’arco di una notte. Concluse le commissioni (le assemblee tematiche che decidono le azioni del movimento della #nuitdebout) alle dieci di sera, Place de la République già il mattino successivo può essere il punto di arrivo di una gara podistica organizzata dall’Equipe, con musica dance sparata dagli altoparlanti, quintali di frutta secca, ettolitri di drink energetici e distese di wc chimici (questi ultimi totalmente assenti nell’acampada delle “notti in piedi”). Alle 12.30 – fuori i runner, dentro le tende – un’ulteriore conversione è già in atto.“La forma di una città”, diceva Boudelaire “cambia – ahimè – più in fretta del cuore di un uomo”. Questi sono solo due dei layers (gli strati) dello scenario urbano da incrociare ai diversi linguaggi che vengono praticati nello spazio urbano parigino, caratteristiche che rendono questo luogo punto importante di sperimentazione e conflittualità. E’ dentro questo contesto che prende forma la #nuitdebout, che ha toccato la data del #100mars, a indicare ormai il superamento dei due mesi consecutivi di attività in piazza. E quella piazza si è allargata (“è #nuitdebout che ha maggiormente penetrato il movimento sindacale più che il contrario”) influenzando l’intero paese e – dopo una prima fase di studio e confronto che prosegue giornalmente – assumendo il ruolo di supporto per altre componenti sociali e politiche nell’opposizione alla Loi Travail. Alcuni livelli (studenti, sindacati, disoccupati, ambientalisti) sperimentano forme di dialogo e di alleanze nella lotta e nella costruzione di pensiero, altri (le banlieus soprattutto) viaggiano separatamente, incrociando solo in alcuni casi la strada degli altri soggetti della scena, non nascondendo la propria alterità e in certi casi anche aggressività rispetto a essi.
Quindi cosa sta succedendo in Francia? In che maniera le proteste influiranno sui Campionati Europei? Il 14 giugno il testo della Loi Travail va in aula al Senato e da tutti quella data viene interpretata come l’appuntamento clou, il momento nel quale far sentire più forte la spinta di un’opinione pubblica che sembra schierarsi in maggioranza (non solo quella che scende materialmente in piazza) contro la proposta del Governo. Sarà mobilitazione generale, grève illimitato come tra l’altro accade da giorni. Il Campionato Europeo è un “cadeau” (un regalo) per la lotta, un surplus di “visibilitè” che mette ulteriormente sotto pressione la politica e le forze dell’ordine, protagoniste di comportamenti estremamente violenti durante le manifestazioni di piazza di fine maggio. L’astensione dal lavoro dei ferrovieri ha rallentato l’arrivo a Parigi della Coppa, mentre gli scioperi sempre più diffusi nel trasporto pubblico renderanno meno agevoli gli spostamenti anche verso gli stadi. Fino a qui – e nelle immagini delle raffinerie bloccate e dei partecipati cortei sindacali – sembra riprendere forma uno schema abbastanza classico di opposizione sociale e politica che determina il riaffermarsi di quelle lotte che “erano state screditate dal ’68 in poi” e che sembravano un ricordo del Novecento. E’ certamente cambiato qualcosa nella composizione delle piazze francesi nel corso di questa lunga primavera di mobilitazione. Ne hanno fatto cenno le persone con cui ho potuto discutere di questo argomento. Maggiore predisposizione alla radicalità (non fine a se stessa, non solo simbolica), difesa dell’intero corteo (senza distinzioni tra le parti che lo compongono) anche di fronte alla durezza della repressione dei CRS (i corpi di polizia antisommossa). Un’alleanza – a detta di tutti – inedita e generata dalla sensazione che con la Loi Travail si tenti di dare una spallata all’intero stato sociale francese. Dentro la richiesta di ritiro immediato del provvedimento non c’è solo la difesa delle 35 ore e della contrattazione nazionale, ma soprattutto l’idea che non si possa mettere in discussione il sistema di garanzie sociali ed economiche collegata alla casa e ai diritti fondamentali riconosciuti al singolo individuo e alle famiglie. E’ dentro queste coordinate di descrizione materiale (non certo esaustiva) delle criticità in tema di giustizia sociale che nascono e si rafforzano i “reseau” (le reti) che coalizzano differenze in “un tempo che è ancora quello della resistenza”.
Ma c’è qualcosa che va oltre la battaglia (certo importante, ma parziale e per certi versi addirittura fuorviante) contro la Loi Travail e ha a che fare con le parole pronunciate da Frédéric Lordon durante una delle prime assemblee generali delle #nuitdebout, il 31 marzo scorso. “Bisogna ringraziare sentitamente questo governo che non ha mai smesso di stimolare il pensiero: la cosiddetta “Legge sul Lavoro” giunge come una sorta di apoteosi che ci permette le ultime precisazioni. L’idea della vita che queste persone ci propongono appare ora in tutta la sua chiarezza. È per questo che, oramai dotati della conoscenza necessaria e dopo lunghe riflessioni, possiamo rispondere “no”. Sottolineiamo, per i sordi – e ce ne sono sempre tanti dalla parte del potere -, che è di questo che si tratta oggi. Non di quante volte il contratto a tempo determinato possa essere rinnovato o dell’opportunità dei voucher, o di altro: si tratta, piuttosto, dell’idea dell’esistenza.” E ancora “Non rivendichiamo nulla. Capirete che dopo decenni in cui ci avete mostrato, voi e i vostri simili, le vostre alte qualità e lungimiranza, l’idea di negoziare con voi ci appare semplicemente senza senso. Il fatto è che “rivendicare” ha senso solo in un contesto che si possa riconoscere come implicitamente legittimo. Viene il momento in cui, a forza di negoziare per poche briciole e anche semplicemente per ridurre la riduzione delle briciole, l’impensabile ritorni alla mente. Non più come oggetto di una qualche “rivendicazione”, ma come oggetto di una trasformazione completa.” Quella che trova spazio in questa riflessione è una nuova ipotesi di società, almeno in potenza. Un cambio di paradigma. “Siamo passati dall’inesistenza all’essere un feto” – dicono in Place de la Republique – “Quello che siamo oggi non è detto che saremo domani. Abbiamo bisogno di analizzare sperimentalmente i vari passaggi di crescita del movimento. Giorno per giorno.” Mettere in crisi il sogno neoliberista, diffondere e condividere la consapevolezza rispetto alla fragilità della narrazione legata al mito della crescita e dei privilegi dovuti all’Occidente rispetto al resto del pianeta. Nelle commissioni della #nuitdebout si discute di ambiente e di sostenibilità, della storia coloniale e del suo non del tutto compreso lascito, delle forme della democrazia e di quelle della lotta, di immigrazione, di lavoro, di welfare e di reddito universale. Lo si fa – sia ben chiaro – dentro un contesto, francese come europeo, di cui sarebbe disonesto nascondere le potenti contraddizioni. La Francia deve fare i conti con la crescita del fronte lepenista (e del “déclassement de petit blanc”, potente mantra del FN per giustificare le proprie battaglie anti-immigrati) miscelata con la crisi profonda del Partito Socialista e delle forme tradizionali della sinistra, istituzionale e di movimento. Non trova soluzione – e chissà se la troverà – la “questione banlieus”, passate nell’arco di una decade da problema di ordine pubblico ed esclusione sociale a serbatoio per il terrorismo internazionale. Sembra lontano il racconto multiculturale che accompagnò la Nazionale transalpina alla vittoria di Mondiale e Europeo a cavallo del nuovo millennio. Famose sono le polemiche attorno alle “quote etniche” (anno 2011, coinvolto l’allora commissario tecnico Laurent Blanc) e – recentissima – quella dell’esclusione (a sfondo razzista?) di Karim Benzema dalla lista dei convocati per Euro2016. E l’Europa? “Esiste, non si può tornare indietro” – è la sintesi stringata e probabilmente non esaustiva del dibattito dentro la la #nuitdebout – ma il problema sta dentro “l’azione delle sue istituzioni, nella sottomissione alla finanza”, e la sfida sta “nel riuscire a ridare un significato e una credibilità a esse, a rigenerarla dal basso”. Per “democratizzare la democrazia” – citando Etienne Balibar – e immaginare un nuovo processo costituente popolare e (almeno) europeo.
E quindi? Due appunti conclusivi. A prima vista la partita principale si gioca qui e ora, dentro il braccio di ferro sulla Loi Travail e nelle strade attraversate dai cortei dei lavoratori del sindacato. Eppure a ben guardare – se non ci si lascia sopraffare dal fascino, un po’ vintage, per lo sciopero dei portuali da un lato e delle fiammate del riot metropolitano dall’altro e si accetta la complessità del momento storico e politico che stiamo vivendo – la componente più interessante di questa fase sta dentro quello che potremmo intendere come un nascente processo costituente globale. Un ripensamento radicale dell’approccio all’economia (ipotesi di rottura rispetto all’attuale scandalosa ripartizione delle ricchezze, apertamente anti-capitalistica), all’ambiente (nel tentativo di scongiurare la sesta estinzione umana, dagli stessi umani causata), alla democrazia (da ripensare e condividere ben oltre i rassicuranti e pur fragili confini occidentali). Troverà realizzazione questo processo? Non ho la palla di cristallo, ma certo il combinato disposto tra l’emergere di sensibilità affini e pure diversissime (per dirne alcune Papa Francesco, Bernie Sanders, un certo neo-municipalismo europeo, persino alcune spinte collegate all’economia della condivisione) e il succedersi di sempre più frequenti crisi tra loro collegate e di esplosioni di tensioni sociali ci mette nelle condizione di intendere questo periodo come interessante – nell’interpretazione della famosa “maledizione” cinese, tanto cara a Slavoj Žižek – eppure decisivo.
E cosa rappresenta l’Europeo di calcio all’interno di questa utopica idea di trasformazione dell’esistente che anche dalla Francia prende le mosse? Niente di più che – al pari di altri grandi eventi, sportivi e non, che riempiono le nostre vite – uno degli strumenti privilegiati (perché popolari, di massa) dal potere per dare forza, o almeno apparenza, all’idea della linearità del tempo, molto cara all’illuminismo e al capitalismo, come bene spiega Franco Rella in “Da metropoli a cosmopoli”(ed. Bompiani, 2016), e dell’immutabile avanzamento del progresso. #nuitdebout – e non solo #nuitdebout – è tentativo di far deragliare quella linearità imposta, di darsi un tempo diverso che non può che prendere le mosse dalla messa in dubbio del modello precedente e presuppone la verifica della praticabilità di uno schema alternativo di società, di economia, di cultura. Troppo? In fin dei conti, non abbiamo niente da rivendicare…
f.
(Questo testo è frutto di letture e approfondimenti sulla #nuitdebout e dei movimenti francesi di protesta contro la Loi Travail degli ultimi mesi oltre che di una breve permanenza a Parigi tra il 29 e il 31 maggio scorsi. Nel testo in virgolettato vengono riportate alcune trascrizioni di vari dialoghi avuti in quei giorni con diverse persone nei dintorni di Place de la République.)