Inizio a scrivere questa recensione dall’angusta tastiera touch di un IPhone 6S, modello già datato della galassia Apple. Invio via e.mail le prime frasi composte di getto. Certamente conterranno qualche errore di battitura e, chissà, qualche strafalcione grammaticale. In un secondo momento le aggiusterò e ne arricchirò la forma. In allegato aggiungo l’immagine da utilizzare a corredo dell’articolo. L’applicazione per la posta elettronica mi chiede – grazie, troppo gentile – di quale dimensione ho bisogno. Da bassissima a mediocre risoluzione la differenza si vede eccome anche sul piccolo schermo che ho davanti agli occhi. Potrò sempre applicare un filtro per renderne migliore la resa. Sono appena sceso da un velivolo RyanAir, e ho speso circa 130 Euro per viaggiare in quattro, due bambini e due adulti, andata e ritorno. Non sono mancati in volo gratta e vinci e un ampio paniere di prodotti di consumo, così come le trombe e gli applausi sono arrivati puntuali all’atterraggio. Uno steward particolarmente loquace e, certamente dal suo punto di vista, molto ironico ha spiegato a tutti i passeggeri di custodire con cura i venti minuti di anticipo raggranellati sulla rotta per riequilibrare i prossimi, prevedibili, viaggi in ritardo offerti dalla compagnia irlandese. Condiglio cinico certo, ma sincero. A Palermo – nel breve volgere di una corsa d’auto nel rumoroso traffico cittadino – sono passato dalla bellezza barocca del Duomo di Monreale alla sciatteria monotona della periferia abusiva di parti non marginali della città che per il 2018 è Capitale Italiana della Cultura. Un pugno in faccia dopo una carezza. Mia figlia (sei anni ancora da compiere) vuole ascoltare “Una vita in vacanza” de Lo Stato Sociale. Chiedo aiuto a Spotify, che risponde – per il bisogno specifico, emergenziale – in maniera perfetta. Tra una pubblicità e l’altra ripetiamo l’ascolto più volte e ci vengono proposte molte altre “musichette” (italiane e non) che l’algoritmo immagina ci potrebbero piacere altrettanto. A poche centinaia di metri di distanza, al Teatro Politeama, Giovanni Sollima suona N-ice Cello, un violoncello di ghiaccio realizzato tra le montagne della Marmolada e che il giorno dopo verrà sciolto nel Mediterraneo, tornando allo stato liquido e alla natura da cui ha preso forma grazie alla cura delle mani sapienti di un mastro liutaio. Un bel contrasto per dare forma allo stesso linguaggio, la musica.
Ecco il contesto nel quale mi sono tuffato in “Bassa risoluzione” (2018, Einaudi) di Massimo Mantellini. Ne ero incuriosito e mi ci sono trovato raccontato in presa diretta. Sono io quello di cui parla. Siamo noi, insomma. Noi e il rapporto con la tecnologia (nell’ultima fase) e noi e la propensione che abbiamo all’accontentarci della bassa risoluzione. Una banalizzazione del nostro approccio alla vita che ci portiamo da un po’ di tempo addosso. Che si tratti di mobili, di viaggi, di arte, di musica, di cibo, di relazioni, di informazione o di politica l’atteggiamento non cambia, così come il risultato che da esso discende. L’accusa è dura. La disamina cruda e certamente non ottimista. Eppure denunciando l’esistenza di una generazione lo-fi – che prende per buoni allo stesso modo lo streaming piratato e intermittente dell’ultima serie tv prodotta da Netflix, il mobile “usa e getta” di Ikea e la precarietà infinita della propria esistenza lavorativa – Mantellini sembra dirci che la condizione in cui siamo altro non è che la sensazione che non valga la pena di sbattersi oltre il good enough. Perché dannarsi l’anima per andare in profondità se la superficie su cui galleggiamo ci sembra così placida e accogliente, facile e quasi automatica nel suo procedere linearmente, indicandoci (o peggio imponendoci) la via da seguire?
Mantellini non é giudicante nella sua analisi. Anzi il suo è un tentativo di renderci consapevoli del fatto che la bassa risoluzione di cui siamo circondati (nella forma fastidiosa di un costante e difficilmente eliminabile rumore di fondo…) non ha nulla a che vedere con la leggerezza, così come la intendeva Italo Calvino. Non è “precisione e determinazione” ma “vaghezza e abbandono al caso”. Un bel problema, perché dai comportamenti individuali – il nostro adeguarci alla bassa risoluzione – dipendono anche, a cascate, le forme collettive che assume il nostro vivere sociale e politico. Ecco che allora i meme (Socialisti Gaudenti, L’Apparato, ecc.) sembrano essere più credibili dei politici “veri” che intendono prendere in giro, così come una parete di cartongesso si fa preferire a una più solida e resistente parete di mattoni e cemento. Le promesse elettorali, anche le più mirabolanti e fantasiose, hanno maggiore impatto rispetto a riflessioni articolate, sguardi di lungo periodo, proposte complesse, così come un frammento Youtube dall’audio disturbato e gracchiante vale quasi quanto la partecipazione a un’esibizione dal vivo. E ancora il rancore, l’odio e la violenza (verbale e non solo) prendono il sopravvento sulla capacità di incontrarsi, di gestire i conflitti, di immaginare forme di condivisione. I sogni e le utopie – laddove le riusciamo a coltivare ancora – difettano di ambizione, come prodotti acquistati in saldo o in qualche discount dove l’offerta 3×2 a noi dedicata è sempre attiva.
Eppure la possibilità di invertire la rotta e di scoprirci ancora capaci di alzare lo sguardo è nelle nostre mani. Quelle stesse mani – e qui sta la grandissima contraddizione di questo tempo – capaci allo stesso tempo di dar vita al sublime e di crogiolarsi nell’omologazione, di ricercare con ostinazione l’innovazione e il cambiamento e di sentirsi a proprio agio nella mediocrità.
Tornare ad una risoluzione adeguata dipende da noi. Diamoci da fare.