– Spazio per una citazione che non ho. E questa volta evito di aprire Wikiquote o di inserire nel motore di ricerca più performante qualche frase buona da associare alla parola “depressione” –
Chi sono? Come sono finito qui?
Non si tratta di domande retoriche. Non sono interrogativi esistenziale, anche se a volte tendo a diluire questioni puntuali e circoscritte (personali, soggettive) in scenari eccessivamente ampi, così – mi pare di poter dire con sufficiente certezza, a valle di un mio percorso di autoanalisi – da spostare l’attenzione da me verso scenari meno dolorosi, perché slegati dalla mia personalissima esistenza. Mal comune…
Rivolgere lo sguardo altrove per salvarsi dall’impietosa necessità di guardarsi dentro. Allontanare nel tempo e nello spazio il momento di fare i conti con se stessi (ecco l’ho fatto di nuovo, con ME STESSO) per paura che il percorso da intraprendere sia eccessivamente tortuoso, che il buco dentro il quale calarmi si dimostri troppo profondo e buio.
Una sorta di salvavita. Pronto a scattare nel momento in cui all’orizzonte si prospetta la strettoia del momento in cui la vita ti chiede di spiegarle – e di spiegarti – quale sia il senso che le vuoi effettivamente dare. Lo si potrebbe scambiare per un esercizio di cautela, un modo per non lasciarsi coinvolgere troppo, se non fosse che non siamo di fronte alla relazione tra analista e paziente (lì dove si può lavorare sulle sfumature del transfert) ma a quella più prossima e indivisibile. Allo specchio. Io e Io.
No. Non è cautela e una particolare forma di cura di sè (di me). O attenzione alle proprie spigolature emotive, causa e conseguenza degli ondeggiamenti della propria (della mia) esistenza. Lo potrebbe essere se avesse le caratteristiche della consapevole attività di elaborare e relativizzare i picchi – siano essi positivi o negativi – della vita quotidiana in nome della definizione di quel senso che altro non è che una matrice minima, una traccia base, un riferimento necessario per orientarsi e non sentirsi totalmente privi (privo, cazzo!) di rotta. Perché sto parlando di me, e non rimasticando i temi de la Teoria della classe disagiata o recensendo L’uomo che trema di Andrea Pomella.
Eppure del primo riconosco nitidamente il contesto, quello nel quale spesso decido di riconoscermi e nascondermi. Una precarietà esistenziale, tanto imposta quanto accettata. Mentre nel secondo mi ritrovo incrociando similitudini che vanno oltre la comune passione per la musica di Elliot Smith. Più sintomo che cura. E’ solo la misteriosa unicità di ognuno di noi – abitanti di questo strambo e nervoso pianeta – a impedirmi di esprimere la mia fragilità rimanendo bloccato all’interno del parcheggio semivuoto di un centro commerciale, incapace di trovare l’uscita. Prigioniero di un moderno labirinto – di vetro, cemento e individualismo -, adagiato rigidamente al bordo di qualsiasi strada di qualsiasi periferia urbana.
Non ho mai chiamato chiedendo aiuto e inviando la mia geolocalizzazione per essere recuperato. Ho chiesto però aiuto, in altra maniera, descrivendo le caratteristiche di quel dolore che di volta in volta – con crescente frequenza e a questo punto anche intensità – fa capolino, sfuggendo al salvavita che poco sopra ho sommariamente descritto. Un meccanismo intimo e quasi automatico che ha preso la forma di un racconto (qualcuno direbbe storytelling) che altera la realtà per evitarne le conseguenze, che ha coltivato la speranza di poter perennemente posticipare il bilancio della prima parte – lunga ad oggi 36 anni – di un’esistenza, che ha sedimentato la percezione di una generalizzata inadeguatezza rispetto a ogni ruolo che mi trovi a ricoprire. Ci tornerò, non ora.
Chi sono quindi? E come sono finito qui?
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p.s. – testo scritto ormai qualche mese fa e che mi sembra interessante condividere in questi giorni che di fragilità psicologica ne hanno prodotta e ne produrranno tantissima.
immagine:
Camouflage’ Tribute to René Magritte
► © Pejac •