
Nei giorni del completamento del mio personale ciclo vaccinale (di cui allego iconico selfie, come da prassi) condivido qualche riflessione sul tema, sperando in una discussione ordinata e non in una gazzarra furiosa.
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Da un anno e mezzo abbondante procediamo (comuni mortali, decisori politici e mondo scientifico) per tentativi – ed errori – dentro uno scenario per molti versi inedito. Non si tratta di una giustificazione ma di un dato di fatto.
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Abbiamo scoperto dolorosamente la capacità letale del Covid19. I numeri delle vittime (“per” o “con” fa davvero poca differenza) lo testimoniano con massima evidenza, impossibile da smentire.
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Nei primi mesi mascherine, pulizia delle mani e distanziamento fisico sono serviti per contenere la trasmissibilità del virus. Metodi semplici, di responsabilità individuale e collettiva, che insieme alle chiusure (il famigerato e per molti versi destabilizzante lockdown) hanno contribuito ad abbattere la curva del contagio nella prima ondata.
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Ci siamo illusi che l’estate 2020 potesse significare ritorno alla “normalità” e ci siamo risvegliati in autunno dentro un contesto peggiorato per qualità e quantità dell’impatto pandemico (più morti e un’insofferente reazione sociale a una situazione di incertezza non più temporanea) che ci ha accompagnato per tutto l’inverno.
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In tempi brevissimi (se paragonati alle procedure standard) abbiamo visto ricercare, sperimentare e immettere sul mercato una serie di vaccini – con provenienze, tecnologie e costi al pubblico molto diversi – che ci hanno messo di fronte all’ipotesi di puntare all’immunizzazione dell’intera popolazione mondiale, condizione minima e non sufficiente per di avvicinarci a una fase almeno parzialmente post-Covid.
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È andato tutto bene?
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Certo che no. La comunicazione sarebbe potuta essere più chiara e capillare. Le norme – non Stato per Stato o addirittura Regione per Regione – potevano essere più semplici e dirette, definendo in partenze le regole d’ingaggio con i cittadini. La pubblicizzazione dei brevetti poteva (e doveva) essere una rivendicazione generalizzata in nome di un’idea di cura democratica e planetaria. La strategia offerta dalle istituzioni, ad ogni livello, aveva bisogno di una capacità visionaria coinvolgente che forse solo il piano Next Generation EU – pur in maniera molto burocratica, tutta da verificare nella pratica e negli effetti – ha messo in campo.
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Arrivati fin qui cosa abbiamo, forse, capito?
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Comportamenti attenti dentro le nostre relazioni sociali.
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Vaccinazione generalizzata, privilegiando arrivati a questo punto (in grande e colpevole ritardo) gli Stati ancora fortemente scoperti. Basti pensare che le 50 nazioni più povere — che contano il 20% della popolazione mondiale — hanno finora ricevuto solo il 2% delle dosi prodotte.
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Conoscenza approfondita e diffusa della malattia e delle possibili reazioni a esse, al fine di controllarne gli andamenti con sempre minor ospedalizzazione, basica o intensiva.
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Queste le tre leve fondamentali in nostro possesso, che nella migliore delle ipotesi dovrebbero essere la base comune per ragionamenti e azioni condivise.
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Evidentemente non è stato così fin dall’inizio. Tensione sulle politiche vaccinali – e ancora più a monte sull’efficacia dei vaccini stessi – e sulle procedure da applicare nella vita quotidiana delle comunità, nelle scuole come sui mezzi di trasporto, sui posti di lavoro e nei ristoranti.
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Il dialogo tra le parti sociali si è fatto via via più faticoso, fin quasi a compromettersi del tutto, incancrenendosi ulteriormente alla comparsa simultanea della variante Delta e all’entrata in vigore agostana del Certificato Verde.
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La prima testimonia le caratteristiche instabili e planetarie del virus, a conferma che o lo si affronta a livello globale o rimarranno sempre aperti spiragli per un’ulteriore mutazione, premessa a nuovi scenari di fragilità del sistema.
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Il secondo è uno strumento per cui è difficile entusiasmarsi e che ha come obiettivo primario quello di “incentivare” il vaccino in maniera indiretta, evitando di prendere in considerazione – finché si può – di istituire l’obbligo vaccinale (per alcune categorie specifiche? per alcune fasce si età?) e costringendo necessariamente, senza arrivare a sostenere le posizioni di Agamben, una discussione tanto filosofica quanto materiale sui concetti di libertà e di pervasività tecnologica, di eccezione permanente e di controllo.
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Questioni su cui non si può sorvolare e che meriterebbero invece un ampio coinvolgimento di cittadini e cittadine.
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Dentro questo ginepraio ringrazio il quotidiano Il Domani per il prezioso lavoro di analisi dei dati (ad esempio ad agosto rallentano le vaccinazioni per il contemporaneo diminuire delle dosi a disposizione e il periodo di ferie di una parte del personale medico dedicato) e per l’apertura di uno flusso di discussione che rimargini almeno parzialmente la frattura interna alla società su questi argomenti di strettissima attualità.

Scrive bene Liberation di qualche giorno fa. Le clash sanitaire (sociale, politico, culturale, relazionale) è un effetto collaterale del Covid19. Clima di sfiducia, crescente rabbia nelle conversazioni – non solo digitali -, una generalizzata discordia che monta mettendo sotto stress la tenuta delle reti comunitarie e delle dinamiche democratiche.
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Solo recentemente ho scoperto che Emile Durkheim usava il termine effervescenza collettiva per descrivere l’eccitazione emotiva che trasforma – durante un concerto di musica classica o dentro il percorso di una grande dimostrazione – la particolarità in qualcosa di più grande, l’individualità in tensione collettiva.
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l’io in noi.
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Un sentimento e fenomeno sociale indispensabile all’attivazione di comunità, alla creazione delle condizioni minime per la presa di parola di ogni mobilitazione. Una condizione che oltre alla sua ricchezza mostra anche i suoi limiti se contribuisce a estremizzare la polarizzazione come avviene sempre più spesso in questo frangente storico.
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Questo ragionamento vale per le piazze rabbiose di questi mesi che, giorno dopo giorno e post dopo post, godono di un crescente senso di identità. Un’adesione fervente a un clan che si va via ingrossando e consolidando, una fede incrollabile nella propria idea di verità che si fa tifoseria compatta e poco (o per nulla) propensa al confronto.
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Non voglio farla troppo lunga e buia, ma credo sia necessario – e urgente – offrire nuovi contesti di dialogo tra diversi e impegnarsi per una garantire una coesione sociale che sento scricchiolare.
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Aprire e ricucire quindi, anche dove sembra impossibile.
Sfidare le appartenenze rigide, lavorando per la contaminazione e l’abilitazione all’ascolto e al confronto.
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Nell’immediato forse alcune delle sfilate del sabato pomeriggio – ben sapendo di rischiare l’insulto e la derisione – bisognerebbe frequentarle (sarò da settembre consigliere comunale e quindi con un ruolo di rappresentanza per l’intera popolazione, non solo per una parte) prendendo parola per stimolare dubbi e domande, per interagire nonostante la fatica che immagino si farebbe a far sentire la propria voce, dissonante rispetto alle posizioni sostenute da quel movimento.
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Dialogare non significa riconoscere.
Dialogare vuol dire fare Politica, nella maniera più autentica e preziosa.
Dialogare è l’unico modo che abbiamo di metterci in contatto con gli altri.
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Nel medio termine serve invece rifarsi al metodo dell’open governament così come me la racconta ogni volta con grande passione Maurizio Napolitano. Trasparenza (ad esempio: come si stanno muovendo davvero i dati del virus? servirà una terza dose? è davvero utile il green pass? come ripartirà la scuola a settembre? è preferibile lavorare su obblighi e multe o sulla spinta gentile per coinvolgere la cittadinanza?), collaborazione e partecipazione (pratiche intese come il punto d’incrocio virtuoso e obbligato tra libertà e responsabilità) devono rappresentare l’orizzonte verso cui muovere un nuovo rapporto generativo tra istituzioni e individui, oggi in difficoltà nel trovare una strada comune.
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Non è mai troppo tardi per provarci.