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In Una storia da raccontare on luglio 28, 2014 at 10:26 am
Le persone che si amano possono essere separate dalle circostanze della vita ma, anche se solo in sogno, la notte appartiene a loro.
– Patti Smith –
Due passi al mercato, attraverso il centro di Gerusalemme, verso casa di Yousef. Dalla Porta di Damasco e le sue bancarelle dovevo dirigermi fino alla Porta dei Leoni. Mi aveva invitato a pranzo, avevo accettato volentieri. Nel tragitto, una camminata di un quarto d’ora a passo tranquillo, avevo la possibilità di rivedere i luoghi già visitati nei miei precedenti viaggi. Da lontano vedevo la cupola dorata che dominava la spianata delle moschee, ad ogni angolo i check point che per lunghe ore della giornata impedivano l’accesso agli arabi a quel luogo di culto tanto conteso. Più o meno a metà strada indicazioni multilingue indicavano la strada verso nuovi scavi archeologici finanziati dal governo israeliano. Erano diventati famosi quando per alcuni giorni una vasta zona della città era stata interdetta al passaggio dei cittadini non israeliani per tutelare scoperte che si dicevano essere straordinarie. Si raccontava fossero stati rinvenuti i resti del famoso tempio del re Salomone. Nessuno documento ufficiale certificava il ritrovamento, ma le sole voci a riguardo facevano crescere la tensione in città. Per giorni giovani arabi e militari israeliani si fronteggiarono nel centro cittadino con lancio di pietre e lacrimogeni, arresti e feriti. La strana normalità di una città attraversata da ferite così profonde e da contraddizioni all’apparenza insanabili. Leggi il seguito di questo post »
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In Una storia da raccontare on giugno 18, 2014 at 8:05 am
C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce.
– Leonard Cohen –
Conoscevo bene la strada che conduceva alla sede dell’associazione TrentoBeneComune 2001. Lungo la scalinata veroso la collina che sormontava la città ero salito centinaia di volte. Una stradina ripidissima e piena di curve, che d’inverno diventava uno scivolo insidioso per chiunque la percorreva. Quanti ruzzoloni di bambini diretti alla scuola, che proprio in quel quartiere era stata spostata una decina d’anni prima. E quante risate di chi riusciva miracolosamente a rimanere in piedi. Quanti gomiti e ginocchia sbucciate di signore dirette al piccolo negozio di alimentari sotto le mura del castello che dominava il centro città. Quante imprecazioni, anche da parte dei frati che faticavano su quell’erta per raggiungere l’antico convento cittadino. Trovavo quel passaggio affascinante. Un piccolo ruscelletto impetuoso e costretto dentro due ali grigie di cemento, la natura a cingere un angolo fatato di città, un momento di silenzio dedicato esclusivamente ai pedoni.
Per me era un vantaggio muovermi su quei sentieri riparati, dove i mezzi motorizzati della polizia non potevano arrivare, dove anche a piedi gli agenti si sarebbero diretti solo dopo aver rivoltato tutta la città. Camminavo in fretta, salendo i gradini a zig zag, seguendo un camminamento incerto creato da chi mi aveva preceduto. La testa bassa – incassata tra le spalle – a evitare gli sguardi delle poche persone che incontravo. Leggi il seguito di questo post »
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In Una storia da raccontare on Maggio 28, 2014 at 9:44 am
La sensazione era che fossero in due a salire le scale. Passo frettoloso, reso ancora più rumoroso dai vetri rotti e dai calcinacci di cui erano ricoperti i gradini. La struttura della fabbrica era fortemente compromessa e la spessa coltre di neve che pesava sul tetto non ne favoriva l’equilibrio.
Quelle scale venivano usate solo da chi era a conoscenza dell’ufficio. Gli spazi occupati dagli altri abitanti erano altrove. Chi saliva le scale doveva certamente venire verso quella stanza. Calò il silenzio.
Irene si spinse contro il muro, sul lato opposto rispetto alla porta. Roberto appoggiò la mano sulla maniglia metallica, aspettando che venisse aperta da un momento all’altro. I passi si fermarono e l’unica cosa che rimaneva in movimento era il denso fumo del respiro che il freddo faceva uscire dalle bocche. Respiri lenti, d’attesa.
Roberto si sporse in avanti, a mettere peso sulla porta, temendo che qualcuno la spingesse catapultandosi dentro la stanza. Magari gli uomini armati della notte precedente, oppure la polizia che sicuramente li stava cercando. Il dolore alla gamba rimaneva forte, ma riusciva a stare in piedi. Non avrebbe offerto grande resistenza in caso di irruzione, ma era meglio di niente. Leggi il seguito di questo post »
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In Una storia da raccontare on aprile 17, 2014 at 1:24 PM
L’istinto della fuga esisterà sempre: anche se Pascal consigliava di passare la vita in una stanza.
– Vittorio Gassman –
Non sono mai stato portato per i viaggi. Sarà la mia scarsa predisposizione per le lingue, o forse la sensazione di oppressione ed inadeguatezza di fronte a quelli che ho ritenuto, da sempre, dei tentativi di fuga. Sono contrario alle ritirate, al ripiegare verso qualcosa di diverso allontanandosi da ciò che si ha, da ciò che si è. Insomma, da ciò che si potrebbe e dovrebbe fare.
Giorgio prima di salutarmi mi aveva detto di controllare la tasca anteriore dello zaino. Appena arrivato in un luogo più riparato seguì la sua indicazione. Dentro una busta, un biglietto aereo sola andata con destinazione Tel Aviv e un blocchetto di banconote da 100 Euro. A prima vista circa tre-quattromila Euro. Il biglietto portava la data del 7 gennaio, tre giorni dopo.
Era il segnale che bisognava andarsene, in fretta. Avevo 72 ore. Il biglietto era uno, prenotato a mio nome, e prevedeva la partenza da un aeroporto minore, speravamo meno controllato. Diversi scali prima di arrivare a destinazione. Per gli altri avrei dovuto trovare una soluzione alternativa alla svelta, una volta uscito dall’Italia.
I viaggi, le partenze non mi avevano mai dato entusiasmo, né nuova energia. Li avevo sempre interpretati come una sorta di sconfitta. Negli anni avevo continuato a vivere nella città in cui ero nato. Le ero rimasto fedele, nella buona e nella cattiva sorte. Leggi il seguito di questo post »
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In Una storia da raccontare on marzo 10, 2014 at 5:45 am
Nel pomeriggio Irene curò la ferita di Roberto. Nell’ufficio c’era un piccolo kit di pronto soccorso. Più tardi avrei portato altri generi di prima necessità trovati in città. Sarebbero certamente serviti.
La ferita non era profonda e il sangue perso non troppo. Irene l’aveva coperta con una fasciatura ben stretta, dopo averla disinfettata e cucita con pochi punti. Aveva aiutato Roberto a mettersi a letto, dove si era addormentato immediatamente.
Prima di andarmene le avevo detto che l’avrei contattata dopo l’incontro con Giorgio, e così feci. Mi era stato confermato che per il momento né Barbara né Giulia erano state chiamate per essere interrogate, fatto questo che mi faceva supporre non fossero state collegate neppure agli omicidi. Almeno questo speravo in cuor mio. Dal mio cellulare inviai un’e.mail a Irene dicendole di contattare Barbara e Giulia, invitandole a venire alla fabbrica quella sera. Avremmo dovuto concordare una linea comune da tenere, come sempre avevamo fatto.
Irene compose il numero. Barbara rispose immediatamente. Lavorava in una galleria d’arte, in uno dei quartieri più ricchi della città e nei suoi pomeriggi liberi gestiva la scuola di italiano che anni prima avevamo aperto in Centro Sociale. In cinque anni dentro quelle aule avevano studiato circa trecento tra ragazzi e ragazze, provenienti da ogni angolo del mondo. Leggi il seguito di questo post »
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In Una storia da raccontare on febbraio 24, 2014 at 6:07 am
L’amicizia, come il diluvio universale,
è un fenomeno di cui tutti parlano,
ma che nessuno ha mai visto con i propri occhi.
– Enrique Jardiel Poncela –
Il centro sociale avrebbe aspettato. Avevo bisogno di altre conferme prima.
Il quartiere di San Carlo negli ultimi dieci anni era diventato il rione degli immigrati. Inizialmente perché i prezzi vantaggiosi degli affitti avevano spinto diversi cittadini nordafricani ad aprire le loro attività in quella zona della città. Ora perché la normativa nazionale sull’immigrazione imponeva la costruzione, in ogni città, di un quartiere dove far confluire tutti gli stranieri. Maggior controllo, dicevano i politici di destra e sinistra. Nuovi ghetti, dicevano in pochi, opponendosi all’idea che potesse essere l’obbligo per una persona di vivere in uno spazio circoscritto, senza poter scegliere nemmeno la casa da condividere con la propria famiglia. Era infatti un comitato, composto dai proprietari delle case e da un gruppo di vecchi abitanti del quartiere, a decidere la disposizione negli appartamenti e l’apertura e la chiusura dei negozi posti ai piani bassi degli edifici. Leggi il seguito di questo post »
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In Una storia da raccontare on gennaio 30, 2014 at 2:04 am
Are you demanding love
when you keep away from me…*
Lungo le pareti della fabbrica abbandonata il freddo era pungente. L’umidità ti entrava nelle ossa e da lì sembrava gelarti l’anima. Camminavo veloce in direzione dell’uscita.
Continuava a nevicare, anche se con minor intensità. Avevo deciso di muovermi a piedi. L’auto – dopo il racconto di Irene – non mi sembrava il mezzo adatto per non farmi notare. Raggiunsi il cancello. Prima di superarlo appoggiai la schiena al muro. Respirai a fondo. Deglutii la saliva impastata dalla temperatura rigida e dallo sforzo del cammino. Guardai le punte delle scarpe, completamente immerse nella neve. Leggi il seguito di questo post »
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In Una storia da raccontare on dicembre 18, 2013 at 12:32 am
Se non ci credi più, se dormi e sei più stanco.
se oggi è già domani e non è successo niente
se l’hai capito già, e poi non riesci a dirlo
che i nostri sogni sono più tristi uno dell’altro*
Di nuovo sangue nelle vie di Hebron. Tre bambini palestinesi, a terra. Un pallone che corre giù per una strada ripida e piena di buche. Nessun piede che interrompe quei rimbalzi irregolari. Nessun muro contro il quale il pallone sbatte, fermandosi. La palla va senza ostacoli in direzione di un check-point israeliano al limitare di uno dei tanti campi profughi. Dietro la palla quattro bambini. Una gara al primo che la raggiungerà. Una gara come tante altre, se fossimo in un luogo diverso, in una situazione diversa. Ma qui siamo a Hebron, e ciò che succede raramente si può definire normale. Una raffica di mitra da parte del militare israeliano che presidia il check-point. Poco più di vent’anni, e la possibilità ogni mattina di decidere della vita o della morte di chi passa per quel punto di controllo. Tre corpi, alti un metro e poco più, uno a fianco all’altro, macchiati di sangue. Uno appoggiato all’angolo di una casa, con una gamba che penzola all’altezza del ginocchio. Leggi il seguito di questo post »
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In Una storia da raccontare on novembre 2, 2013 at 1:50 PM
Di tutte le parole scritte o pronunciate,
queste sono le più tristi:
“Avrebbe potuto essere!”
Irene non chiuse occhio quella notte. Si era confrontata con Giulia e Barbara, condividendo con loro il testo scarno della telefonata ricevuta. Decisero che non si sarebbero mosse insieme. Irene sarebbe venuta all’incontro. Barbara e Giulia avrebbero continuato, come ogni mattina, a presentarsi al lavoro per poi nel pomeriggio raggiungere il centro sociale. Si sarebbero fermate a dormire a casa di Barbara quella notte, pensavano fosse meglio così. Fuori aveva ripreso a nevicare forte. Muoversi in città era molto difficile.
Barbara e Giulia abbracciarono forte Irene prima di infilarsi a letto. La preoccupazione era tanta per ciò che poteva essere successo, ma ancor più per ciò sarebbe potuto accadere il giorno successivo.
Per Irene, che di prima mattina avrebbe dovuto scavalcare il muro delle vecchie fabbriche abbandonate e avventurarsi nel cuore di quello che era il rifugio di emarginati e fuggiaschi. Spesso faticava persino la polizia ad entrarci. Lei lo aveva attraversato più volte insieme a me e, in uno dei capannoni che sorgevano proprio al limitare di quelli che un tempo erano i depositi di cemento, avevamo allestito anni addietro un ostello d’emergenza dove senzatetto e migranti trovavano conforto e sicurezza. Leggi il seguito di questo post »
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In Una storia da raccontare on ottobre 26, 2013 at 7:19 PM
Se io potessi tratteggiare i sentimenti,
se io potessi musicare le sensazioni,
se io potessi rompere i miei silenzi…
se solo ci riuscissi brillerebbero nel cielo i miei occhi brillanti.
Come ero arrivato fino a quel punto? Quali erano state le tappe di un percorso a ostacoli che mi aveva portato in quella stanza, nel quartiere arabo di Gerusalemme? Erano passati poco più di otto anni dalla prima volta che avevo occupato, insieme ad un’altra ventina di amici, un vecchio stabile alla periferia della città. Ero uno studente di giurisprudenza che si guardava attorno e pensava che quella fosse l’unica maniera utile per cambiare il mondo. Dopo quella ci furono decine di altre occupazioni. Centri sociali aperti, costruiti e difesi insieme a tante persone. Persone speciali. Processi nei quali ero imputato. Assoluzioni e condanne. Iniziative quotidiane. Proteste. Cortei. Convegni. Dibattiti. Riunioni. Cene sociali e concerti. Gioie e delusioni, comunque da vivere insieme.
Per anni rimasi uno studente che conduceva una vita di impegno politico e sociale incondizionato. I soldi in tasca non erano molti ma la complicità con gli altri dava soluzioni a ogni problema. Leggi il seguito di questo post »