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Posts Tagged ‘guerra’

Appunti di lettura | 5.

In Ponti di vista on novembre 30, 2015 at 11:13 PM

rodneysmithIn tempi complessi è bene leggere il più possibile opinioni diverse, provare a elaborarle (magari anche mischiandole) e trovare il modo di farne sintesi accurate. Leggere certo non basta, ma aiuta e rincuora di fronte al constante bisogno di semplificazione che ci viene richiesto, anche lì dove non c’è proprio modo di semplificare.

*Parigi e dintorni.

Marino Sinibaldi | La parola guerra e le profezie sbagliate dell’Occidente | Internazionale
“È guerra la parola alla quale si ricorre per automatismo o autocompiacimento (specie maschile, ma questo è un altro discorso che pure andrà fatto), per povertà lessicale e culturale, per mancanza di fantasia (non appaia futile, la formula: la fantasia, l’immaginazione sono armi politiche decisive, specie quando si deve combattere l’inaccettabile, o l’incomprensibile, come oggi sta accadendo).” Uno dei testi più belli e articolati che ho letto in queste settimane.

Franco La Cecla | Il copyright del male, il copyright dei morti | Doppiozero
La Cecla non ha paura di provocare e lo fa anche di fronte alla lettura necessaria di ciò che sta nel retrobottega del fondamentalismo di Daesh. Da passare in rassegna perché a volte sbucciarsi le ginocchia cadendo su un pavimento ruvido aiuta a comprendere in che direzione muovere il prossimo passo.

Jérome FerrariNon lasciamo che le emozioni ci impediscano di comprendere | La Repubblica
Ferrari è un autore che ho conosciuto tardi ma che ha una capacità narrativa sconvolgente. “Dove ho lasciato l’anima” è una fotografia alla guerra di Algeria di rara potenza. Questo articolo ci richiama alla comprensione, necessaria e troppo spesso dimenticata. Leggi il seguito di questo post »

Una storia da raccontare / 18.

In Una storia da raccontare on novembre 11, 2014 at 10:54 am

edward burtynskyNon mi avrebbero preso. Almeno non subito. Non avevo paura di cadere. Non temevo che qualcuno potesse bloccare la mia corsa. Stavo scendendo a valle. L’abbaiare dei cani si faceva sempre più distante così come le sirene che salivano la strada sull’altro lato della collina. Mi sentivo al sicuro.
Avrei dovuto attraversare la strada asfaltata solo una volta, poi di nuovo l’abbraccio protettivo degli alberi. Silvano stava sicuramente raccontando della nostra breve conversazione. Lo faceva tamponando il sangue che gli usciva dal naso, che probabilmente gli avevo rotto.
Per qualche strano motivo ero più sereno dopo quell’incontro. Mi aveva confermato che la rete di connivenza attorno agli autori degli omicidi era ampia. Mi sembrava ormai certa una responsabilità anche dei ragazzi del Centro Sociale. La tranquillità di Silvano mi diceva che l’organizzazione aveva radici salde e rami capaci di arrivare molto in alto. Percorrere quei sentieri pieni di neve mi sembrava la cosa più vicina alla libertà. Nessuno mi poteva raggiungere. Ero più veloce, più leggero.

Ancora due balzi e fui sulla strada. Alla mia sinistra un piccolo capitello in legno. Una delle tante rappresentazioni religiose che in  montagna si usano venerare o – in alternativa – bestemmiare. La neve raggiungeva quasi la teca di vetro dove era contenuta la piccola madonna dai colori pastello, così uguale a tutte le altre che in vita mia avevo visto. Il bosco le faceva da cornice, insieme al silenzio. Sotto i cumuli di neve c’era una piccola panca di legno, che si poteva vedere solo in parte. Decine di volte mi ero seduto lì con Irene. Quattro chiacchiere prima dell’ultima rampa. La accompagnavo quando lei lavorava presso la comunità che ora era gestita da Silvano. Leggi il seguito di questo post »

Guerra e pace

In Ponti di vista on settembre 7, 2014 at 3:59 PM

dawnCaro Beppe, Caro Gino
lo scontro tra l’afflato ideale del pacifismo e il richiamo alla realpolitik non è certo un argomento nuovo e di certo – a meno di stravolgimenti culturali ad oggi imprevedibili – non sarà l’ultima volta che le ottime ragioni dell’opporsi alla guerra si troveranno di fronte le altrettanto importanti (almeno nelle argomentazioni di chi perora questa causa) di chi sostiene la necessità di un intervento armato per porre fine alle barbarie che si verificano in questa o quella parte del pianeta. Non siamo di fronte ad una scelta semplice, e lo dimostrano i dubbi che in passato hanno colpito anche coscienze critiche (e cuori sensibili) come Alexander Langer quando bisognava decidere il da farsi rispetto alla guerra che insanguinava i Balcani, nel cuore dell’Europa. Questo tema porta con se molteplici contraddizioni; soprattutto quando il contesto nel quale ci si muove, gravato da una complessità esponenzialmente crescente, non garantisce che una scelta – in una o nell’altra direzione – possa rivelarsi senza conseguenze.

Ma siamo davvero certi che il cuore della discussione stia nella distinzione tra il “fare” e il “non fare”? Crediamo davvero che sia sufficiente questa divisione netta tra opposti per approciare un argomento tanto delicato? Non credete sia possibile – anzi, auspicabile – trovare uno spazio di discussione, e parallelamente di azione politica, che vada oltre questa stanca dicotomia?
Non per trovare un punto d’incontro a metà strada, una scappatoia sulla falsariga degli equilibrismi linguistici associati all’epoca delle guerre umanitarie, ma per descrivere un orizzonte altro. Leggi il seguito di questo post »

Negli occhi di un bambino…

In Ponti di vista on settembre 3, 2013 at 7:24 PM
tumblr_lcnvf7vtZ31qdn78io1_500_2A volte il bambino di undici anni che c’è in me prende il sopravvento. Leggo che Barack Obama ha incontrato oggi i leader del Congresso ed è fiducioso che votino favorevolmente la sua ipotesi di attacco militare alla Siria. Un avvertimento, ma non solo. A undici anni, è normale, si ha un’idea del mondo fortemente semplificata. E allora io mi immagino il Presidente degli Stati Uniti – insieme ad altre persone di buona volontà – che arrivano fino al confine con la Siria, dopo aver camminato attraversato il Medio Oriente e attorno al Mediterraneo. Chiedono che cessino i combattimenti e si ridia spazio alla parole, alla discussione, al confronto. Lo fanno davanti a tutto il mondo e rivolgendosi a tutto il mondo. Immagino che le soluzioni si trovino in questa maniera piuttosto che attraverso le bombe sganciate da qualche aereo supersonico o sommergibile nucleare. Ovviamente a undici anni non si tiene conto degli interessi economici, dei veti incrociati, delle alleanze strategiche, dei nemici da annientare, delle ideologie. A undici anni non si capiscono molte cose di ciò sta attorno, tutto sembra sterminato. Ma forse si ha più chiaro cosa è certamente sbagliato. Poi si cresce velocemente…

f.

What’s your dream, Barack?

In Ponti di vista on agosto 29, 2013 at 10:24 PM

abomb-6Due leader neri. Due modi diversi di rappresentare l’America. Tra loro mezzo secolo lunghissimo. La fine del ‘900 delle guerre mondiali, della guerra fredda, delle grandi ideologie e delle personalità da ricordare. L’inizio del nuovo millennio che fatichiamo a sentire nostro. Frenetico, contraddittorio, non meno sanguinoso e guerreggiato. Nuovi equilibri mondiali, maggiori incertezze, la crisi economica dell’occidente. Un glorioso passato alle spalle, un incerto futuro di fronte.
Martin Luther King nel suo celebre discorso di Washington regalava alla storia una frase fortemente evocativa: “I have a dream”. Barack Hussein Obama – eletto per due volte alla presidenza degli Stati Uniti d’America – ne sembrava la rappresentazione più autentica, la classica chiusura del cerchio. Il realizzarsi del sogno americano. Sono passati cinquant’anni.

Due premi Nobel per la Pace. Molto diversi tra loro. Quello a King figlio della battaglia per i diritti civili condotta in prima persona, fino all’assassinio del 1968. Quello ad Obama prodotto di un immaginario tutto da verificare. In quel premio – ricevuto poco dopo il primo insediamento – c’era l’auspicio di un cambio di prospettiva. Dal neo-imperialismo americano ad un modo più orizzontale e dialogico di intendere le relazioni internazionali. Dall’interventismo unilaterale dei suoi predecessori ad un uso diverso (e limitato) dell’opzione militare nella risoluzione dei conflitti. Era un riconoscimento che oltre al suo valore simbolico doveva trovare legittimazione soprattutto nelle scelte di politica estera. Afghanistan, Iraq, Israele e Palestina, Iran. Leggi il seguito di questo post »

F35, TAV e la necessità di un cambio di passo

In Ponti di vista on febbraio 29, 2012 at 7:11 am

GIOCHI DI GUERRA. Da bambino giocavo spesso con i soldatini di plastica. Li conservavo dentro un vecchio scatolone di Dixan. C’erano i verdi (immagino americani), in gran numero, e i neri (senza dubbio tedeschi) in pochissime unità. La storia si fa anche sugli scaffali dei negozi di giocattoli. Per ogni gruppetto di militari erano previsti mezzi adatti ad ogni missione: jeep, mezzi anfibi, carri armati e anche dei luccicanti aerei da combattimenti. Gli obsoleti F16 del Tom Cruise di Top Gun. Erano gli anni della prima guerra del Golfo, avevo sette anni, e non possedevo una coscienza politica a cui appellarmi. Le mie truppe venivano schierate nel giardino di casa e si fronteggiavano su un terreno senza confini, senza una geografia precisa, senza obbiettivi strategici da conquistare. La battaglia si ripeteva ogni pomeriggio senza apparenti perdite nei due schieramenti e senza coinvolgimento di civili, totalmente assenti dalla scena. Una guerra pulita e irreale, che non prendeva in considerazione le conseguenze distruttive dell’azione degli eserciti e delle loro armi. Era un gioco che mi piaceva molto e riempiva le mie giornate estive insieme al pallone.

LA VIOLENZA DENTRO DI NOI. In molti hanno scritto dell’inconfessabile amore per la guerra (la bibliografia è sconfinata), ma più in generale potremmo parlare di una attrazione costante per l’uso della forza. Ogni momento delle nostre esistenze è segnato da un’altissima concentrazione di violenza (sia fisica che verbale) che in qualche maniera – ognuno a proprio vantaggio – proviamo a declinare come legittima e giustificata. Uno Stato può attaccarne un altro per la propria sicurezza nazionale oppure perchè ne ritiene illegittima l’esistenza (è il caso di Israele e Iran), un dittatore può decidere di sterminare uomini, donne e bambini in nome della difesa del proprio potere (la Siria e prima la Libia), un capo di stato può iniziare un conflitto – e la sua barbarie – per tutelare un interesse o addirittura per una pregiudiziale etnica. Leggi il seguito di questo post »