
Non serve essere militanti di Ultima Generazione (certamente vi è capitato di incrociare una delle loro appassionate e radicali proteste) per essere preoccupati del pessimo stato degli equilibri ambientali attuali. Siamo nel mezzo di uno degli inverni più caldi degli ultimi sei secoli, testimoni di una delle stagioni più siccitose dello stesso periodo. Non un’eccezione quindi, ma una tendenza. A ricordarcelo il report pubblicato da «Nature Climate Change» che segnala come nell’ultimo secolo si sia perso un mese di copertura nevosa all’anno sull’arco alpino, a 3.000 metri di quota. L’ennesimo segnale della crisi climatica a cui dobbiamo dedicare maggiore attenzione.
E’ dentro questo scenario che la Marcialonga festeggia il suo cinquantesimo compleanno. Un traguardo importante per una manifestazione che unisce prestigio agonistico, richiamo sportivo per migliaia di appassionati, visibilità per un intero territorio. La praticabilità del percorso negli ultimi anni – vista l’incostanza del manto nevoso naturale – è stata spesso garantita attraverso l’innevamento artificiale e già su questo fronte è d’obbligo porre l’accento sui rischi per la sostenibilità generale dell’evento. Quest’anno però, ancora prima di arrivare alla mass start dalla piana di Moena, due tra i momenti di avvicinamento hanno attratto la nostra attenzione e – in tutta sincerità – non ci hanno convinto.
In primis la conferenza stampa realizzata in volo a bordo di un Dash 8 Q400 di SkyAlps decollato da Bolzano (pur con la prevista “compensazione” di cento alberi piantati dalla società organizzatrice, che tanto sa purtroppo di greenwashing) ci è sembrata perdere di vista completamente la misura e il senso del limite, che inviterebbe a ridurre le emissioni climalteranti alla radice, prima quindi di cercare il modo – comunque parziale e riparativo – di porvi rimedio a posteriori.
In seconda battuta l’evento previsto nel centro di Trento il prossimo 26 gennaio – con una pista da fondo temporanea allestita in via Belenzani – con la prevedibile posa di neve artificiale trasportata meccanicamente in loco, ci sembra un’iniziativa incompatibile dentro il contesto che abbiamo descritto in premessa. Appare da un lato un inspiegabile spreco (di acqua, di energia, di nuovo di emissioni superflue) e dall’altro una distorsione dell’immaginario di sostenibilità che dobbiamo saper restituire agli sport invernali e, più in generale, al nostro rapporto con la montagna, con la natura e con i suoi limiti, troppo spesso dimenticati.
Perché anche i simboli contano, soprattutto se così estremi e fuorvianti. E perchè è questo il momento di affrontare la transizione verso un nuovo modello economico e culturale, imposto dal rapido deterioramento della tenuta ecosistemica, causata soprattutto della strabordante impronta ecologica umana. Ce lo ricordano Michele Nardelli e Maurizio Dematteis nel loro libro dall’eloquente titolo “Inverno liquido” (ed. DeriveApprodi, 2022) che attraverso un variegato itinerario lungo Alpi e Appennini descrive criticità e possibili alternative alla monocultura dello sci di massa.
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