– Spazio per una citazione che non ho. E questa volta evito di aprire Wikiquote o di inserire nel motore di ricerca più performante qualche frase buona da associare alla parola “depressione” –
Chi sono? Come sono finito qui?
Non si tratta di domande retoriche. Non sono interrogativi esistenziale, anche se a volte tendo a diluire questioni puntuali e circoscritte (personali, soggettive) in scenari eccessivamente ampi, così – mi pare di poter dire con sufficiente certezza, a valle di un mio percorso di autoanalisi – da spostare l’attenzione da me verso scenari meno dolorosi, perché slegati dalla mia personalissima esistenza. Mal comune…
Rivolgere lo sguardo altrove per salvarsi dall’impietosa necessità di guardarsi dentro. Allontanare nel tempo e nello spazio il momento di fare i conti con se stessi (ecco l’ho fatto di nuovo, con ME STESSO) per paura che il percorso da intraprendere sia eccessivamente tortuoso, che il buco dentro il quale calarmi si dimostri troppo profondo e buio.
Una sorta di salvavita. Pronto a scattare nel momento in cui all’orizzonte si prospetta la strettoia del momento in cui la vita ti chiede di spiegarle – e di spiegarti – quale sia il senso che le vuoi effettivamente dare. Lo si potrebbe scambiare per un esercizio di cautela, un modo per non lasciarsi coinvolgere troppo, se non fosse che non siamo di fronte alla relazione tra analista e paziente (lì dove si può lavorare sulle sfumature del transfert) ma a quella più prossima e indivisibile. Allo specchio. Io e Io.
No. Non è cautela e una particolare forma di cura di sè (di me). O attenzione alle proprie spigolature emotive, causa e conseguenza degli ondeggiamenti della propria (della mia) esistenza. Leggi il seguito di questo post »