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Cosa vuol dire davvero sicurezza?

In Ponti di vista on giugno 4, 2024 at 7:21 am

Sicurezza. Non c’è espressione più scivolosa e spesso fraintesa.

Non potrebbe essere altrimenti, perché chiunque voglia occuparsene dovrebbe aver chiara la distanza tra ciò che il termine dovrebbe rappresentare (la giustizia cui faceva riferimento John Rawls, il patto sociale su cui i cittadini possono contare) e ciò che negli ultimi decenni è diventato. Campo privilegiato per la speculazione elettorale sotto la spinta costante degli imprenditori della paura, così come li chiamò per primo Marco Revelli.

Da quando ho memoria politica – vent’anni almeno – l’uso strumentale della sicurezza c’è sempre stato, rinfocolato da una classe politica (a destra, ma non solo) che ha costruito sulla retorica dell’emergenza e della pericolosità dei contesti urbani le proprie fortune.

Un gioco cinico che continua a produrre danni.

Ogni rilevazione statistica ci dice che l’epoca che stiamo vivendo è tra le meno violente della storia dell’umanità. Gli omicidi in Italia sono passati da 711 a 330 annui nel ventennio tra il 2004 e il 2023, dopo che a inizio anni ’90 raggiungevano la cifra record di 1.700. Unica fattispecie in controtendenza è quella dei femminicidi il cui dato è addirittura in leggera crescita negli ultimi anni. Se allarghiamo lo sguardo agli altri reati contro persone o patrimonio (aggressioni e lesioni, furti e rapine) anche qui troviamo cifre in calo che non descrivono un Paese sotto scacco della criminalità. Viene da chiedersi allora perchè sia ancora così forte il racconto di una sorta di apocalisse urbana – anche per la città di Trento – caratterizzata, così si dice, da interi quartieri fuori controllo.

Di fronte a questa fotografia può bastare dirsi che l’emotività della percezione prevale troppo spesso sull’osservazione razionale dei dati? Con tutta probabilità no.

La percezione di insicurezza va intesa come un sintomo della realtà (uno stato spiacevole perchè non permette di vivere nel migliore dei modi il luogo che si è deciso di abitare) e come tale va ascoltata, compresa e accompagnata, agendo sulle cause che la determinano. Non va dimenticato che – lo spiega il rapporto Cedi/Censis sullo stato di salute del ceto medio italiano – è l’intera infrastruttura sociale dentro cui stiamo che scricchiola, non garantendo condizioni materiali dignitose (fondamentali come lavoro e reddito, casa e welfare, sanità e opportunità per il domani) a troppe e troppi.


L’incertezza si fa da questo punto di vista esistenziale, rendendo presente e futuro non desiderabili, anzi minacciosi. Anche queste sono le premesse da cui emerge il senso di insoddisfazione e generale fatica nel sentirsi a proprio agio nello spazio della propria comunità. Enzo Bianchi ha espresso preoccupazione per questi tempi non buoni, per “un clima non di leggerezza, ma di insostenibile pesantezza, [che] deteriora la qualità della vita personale e sociale.” A conclusione della sua riflessione ci invita a mettere in atto “prassi di resistenza”, un’“insurrezione delle coscienze” capace di attivare energie collettive buone per “architetture in grado di accrescere la democrazia”.

E’ a questo che deve puntare una Politica che si impegna per il bene dei proprio cittadini, di tutti e non solo di alcuni.

In direzione opposta si muovono invece le politiche ottuse e cattiviste messe in atto dal governo di Maurizio Fugatti. Fin dal suo insediamento ha deciso da un lato di smobilitare ogni tipo di accoglienza diffusa (strumento funzionante per l’inclusione e per lo sviluppo di buona cittadinanza) e dall’altro di essere carente o mancante in ogni tipo di pianificazione per politiche sociali e welfare comunitario. Si allargano così gli spazi della fragilità e delle sofferenze, le sacche di esclusione e i contesti di potenziale conflittualità. Una condotta dolosa (perchè da essa verrebbe trarre anche consenso elettorale) che ha trovato – dall’ottobre 2022 in poi – pieno sostegno nel governo Meloni e nella sua azione.

Che fare allora per resistere a questa deriva e per impostare una rotta diversa? Lavorare su più fronti, senza cercare scorciatoie, e utilizzare una varietà di strumenti.

Una prima urgenza sono le reti di prossimità (fatte di gentilezza, di aiuto, di ascolto) dedicate a chi ha bisogno in un particolare momento di una maggiore protezione o a chi si è trovato ad affrontare situazioni spiacevoli o pericolose – penso a chi ha subito nelle ultime settimane furti nella propria attività commerciale, aggressioni mentre stava lavorando o a chi non ritiene accoglienti alcuni brani di città -, perchè Politica è prima di ogni altra cosa “far sentire al proprio vicino che non è solo”.

Serve volersi bene, essere davvero comunità.

C’è poi quella che alcuni definiscono – con un certa ferocia – azione repressiva, che altro non dovrebbe essere che l’esercizio del presidio del territorio così come lo prevede lo stato di diritto, ossia puntuale e certo, proporzionato e efficiente, capace tanto di essere deterrente alla commissione di un reato quanto strumento per intervenire dove questo abbia luogo. Serve a poco da sola l’invocazione dell’intervento delle Forze dell’Ordine, dobbiamo dircelo, se non è collegata a un sistema giudiziario e detentivo (partendo dal legislatore e arrivando alle strutture carcerarie) che contribuiscano, in una perfetta reciprocità e collaborazione, al recupero e al reinserimento sociale, non limitandosi alla punizione se non addirittura alla vendetta. Non serve a nulla se non corrisponde a una contestuale ritessitura – così come la definisce il titolo della prossima Settimana dell’Accoglienza – delle lacerazione della società di cui siamo parte.

E’ quindi sociale la parola a cui dedico le ultime battute di questo ragionamento. Alain Touraine in una delle sue più importanti opere parla di “distruzione del sociale”, ossia di quel fenomeno che – tramite l’ampliarsi delle disuguaglianze e la riduzione degli strumenti per la coesione – frantuma i legami comunitari, moltiplica le forme del disagio, rende più esposte le fatiche che la marginalità e l’esclusione producono. Siamo pienamente dentro questa fase che Ilda Curti definisce così: “l’urbs è ammalata – ferita – e ospita una civitas frammentata, molecolare, conflittuale, ineguale. La polis stenta ad avere visioni complesse e condivise.”

Se davvero l’orizzonte a cui vogliamo tendere – come individui e come società, come polis appunto – è quello di una maggiore sicurezza e di una migliore convivenza allora il nostro più grande investimento deve essere indirizzato alla costruzione e al mantenimento di politiche per la protezione sociale, per l’accompagnamento e per la cura, che non lasciano indietro nessuno e che sanno interpretare debolezze e bisogni offrendo risposte puntuali e diffuse sul territorio. Professionalità ed energie, progetti e luoghi che sono nodi di un trama a maglie strette, di una città che si prende cura e che si impegna per la giustizia sociale.

E’ questo il progetto per la sicurezza di cui abbiamo bisogno.



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