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Contro le tensioni mondiali, la pace sia utopia concreta

In Ponti di vista on aprile 14, 2024 at 10:58 PM

Articolo pubblicato su Il T, domenica 14 aprile 2024

Sono passati sei mesi dai feroci attacchi condotti da Hamas in alcuni kibbutz israeliani posti a nord della Striscia di Gaza. Le immagini di quelle ore, testimonianza di violenze efferate, ci hanno raggiunto lasciandoci sgomenti. 

Un tale carico di violenza non ha impiegato molto ad attivare i suoi effetti nefasti. Nei centottanta giorni successivi, e anche ieri nella giornata in cui anche a Gaza terminava il periodo di Ramadan, davanti ai nostri occhi si è dispiegata la reazione militare dello Stato d’Israele su di un fazzoletto di terra (360 kmq di estensione, venti volte meno della provincia di Trento) nella forma di una sproporzionata azione militare che anche in questo caso ha visto come vittime ampiamente maggioritarie – tra le oltre 30.000 che contiamo fino ad ora – uomini, donne e bambini con nessuna altra “responsabilità” oltre a quella di essere nati e cresciuti in uno spicchio sbagliato del Mondo, tormentato da indicibili sofferenze senza un impegno sufficiente per cambiarne il destino e per intraprendere un percorso credibile di pacificazione e giustizia.

Oggi ci sono tristemente familiari – dopo anni di sguardo colpevolmente rivolto altrove – il posizionamento dei valichi di ingresso a Gaza (Erez a nord e Rafah verso l’Egitto), i nomi delle città che compongono la Striscia (le martoriate Gaza City e Khan Yunis su tutte) e degli ospedali bombardati (Al-Shifa), le storie delle organizzazione che più si sono spese in un contesto così difficile, come nel caso di World Central Kitchen che ha perso recentemente in un raid sette dei suoi operatori sul campo.

L’attacco del 7 ottobre e i successivi assedio e invasione della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano non si inseriscono però in un tempo neutro e privo di criticità, di fatiche e di conflitti. 

Anzi. 

Il caos che osserviamo oggi è istantanea fedele della storia recente di un Pianeta che subisce con eccessiva frequenza “infarti” politici e militari, ecologici e umanitari che ne minano gravemente la stabilità e la prospettiva. Ogni volta che – ricordando le tragiche sorti del Novecento – ci promettiamo“mai più”dobbiamo premurarci che tale affermazione non si riduca a formula retorica ma corrisponda invece all’applicazione concreta di una memoria generativa, capace di imparare dal passato perchè non si ripetano gli stessi errori nel presente e nel futuro.

Un carcere diverso è possibile.

In Ponti di vista on marzo 16, 2024 at 8:04 am

– articolo pubblicato su Il T, venerdì 15 marzo 2024 –

Affermava Voltaire che “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. E’ una massima che – da quando ho memoria – viene richiamata a mo’ di monito per sottolineare la condizione di precarietà (per usare un eufemismo…) delle carceri italiane.

La si trova utilizzata per denunciare l’inaccettabile sovraffollamento delle strutture detentive (l’Unione Camere penali Italiane ci dice che sono 60.637 le persone oggi detenute a fronte di 51.347 posti ufficiali, dei quali però alcune migliaia indisponibili) o per far riferimento all’alto tasso di recidiva – attorno al 70% per chi transita per le celle italiane – che è il prodotto del fallimento della dimensione rieducativa della pena, che invece è il cuore dell’art.27 della Costituzione.

Parlare della crisi del sistema detentivo italiano diventa ancora più doloroso e urgente nel momento in cui si fanno i conti con il numero di suicidi (l’associazione Antigone ne conta 24 da inizio anno, tre nelle ultime 72 ore, due di ragazzi poco più che ventenni) a cui vanno aggiunti un numero infinitamente più alto di atti di autolesionismo che pratica chi si trova costretto dietro le sbarre. 

Che fare allora se la fotografia della situazione è così evidente ed esposta, tanto da rischiare denunciandola senza agire di conseguenza per un suo miglioramento di scivolare nella sterile retorica? 

In primis sarebbe utile tornare a condividere l’idea che il carcere va inteso come l’ultima soluzione lì dove ci siano condizioni tali da necessitare una netta e continuativa separazione tra la società e chi commette un reato. Per le altre fattispecie – la stragrande maggioranza dei casi – vale invece la già richiamata tensione primaria al reinserimento sociale, alla capacità di utilizzare la durata della pena come spazio per la riconnessione tra l’individuo temporaneamente privato della libertà con le sue comunità di riferimento. 

Meno detenut3 e migliori percorsi sociali loro dedicat3 dovrebbe essere la stessa polare verso cui orientare l’impegno politico e amministrativo. 

Peccato da questo punto di vista che l’idea del Governo in carica si ponga esattamente all’antitesi, guidata com’è dall’illusione che il moltiplicare il numero di reati punibili (per i rave party, per le manifestazioni ambientaliste, ecc.) e il conseguente aumento di persone a cui sia ristretta la libertà possano produrre maggiore sicurezza. Se concentriamo l’osservazione ad esempio alla questione delle fragilità e delle conflittualità giovanili, tema di grande attualità negli ultimi mesi, abbiamo oggi il numero più alto di minori reclusi da diversi decenni a questa parte – più di 500, in costante crescita dopo il cosiddetto decreto Cainvano -. Ragazzi e ragazze su cui lo Stato applica una sorta di “vendetta sociale” invece che dedicarsi nella costruzione di percorsi di sviluppo individuale e collettivo orientati alla legalità e alla partecipazione attiva alle dinamiche comunitarie. 

Abitare la montagna. Davvero.

In Ponti di vista on febbraio 4, 2024 at 11:03 PM

Di ritorno dalla bella manifestazione/passeggiata in Panarotta il 22 gennaio 2024 ho cercato di fare mente locale sulle sollecitazioni che da quella giornata mi sono rimaste più addosso. Lo ho fatto riconoscendo un primo filtro – a mio modo di vedere importante, decisivo – che riguarda la mia condizione soggettiva.

Sono un solandro di nascita che fino ai diciotto anni ha vissuto in maniera stabile tra Monclassico (oggi Dimaro-Folgarida, alla faccia del campanilismo…) e le quote più alte delle valle, con lo sguardo e i piedi sempre puntati alle Dolomiti di Brenta. Le ho amate, attraversate, scalate per quel che mi è riuscito pensando addirittura per un periodo che il mio lavoro da grande potesse essere quello di guida alpina.

Finite le scuole superiori (frequentate a Cles, velocemente dimenticate) mi sono trasferito a Trento e pur rimanendo quindi a distanza contenuta non ho più frequentato quei luoghi. Sono scappato e mi sono fatto catturare dalla dimensione e dalle abitudini urbane. Ho attraversato sempre meno boschi e pietraie, mi sono dimenticato di come sia andar per sentieri, praticare lo sci, abitare lo spazio montano.

Dico questo perchè risalendo i tornanti che da Levico puntano alla Panarotta mi sono sentito in parte un estraneo che si intrufolava in uno spazio altro da sè. Ho riconosciuto insomma – incarnata in me stesso – la distanza a cui spesso si fa cenno tra città e valli, quella che impedisce ai due mondi di capirsi e di collaborare.

Durante il percorso per arrivare in vetta mi sono messo in ascolto dei diversi interventi che si sono succeduti.

Mi sono appuntato le parole di Marco Albino Ferrari che ha sottolineato giustamente di come la rivendicazione di un modello alternativo allo sci di massa non abbia solo a che fare con l’ambientalismo ma con una più generale comprensione di una necessaria trasformazione del rapporto con le terre alte. Non possiamo/dobbiamo voltarci dall’altra parte.

Mi hanno convinto i ragionamenti di Pietro Lacasella che ha spiegato come la transizione generata dalla crisi climatica (le Alpi sono tra i luoghi più sensibili da questo punto di vista, la neve elemento estremamente fragile e precario) viaggi a una velocità di molto superiore rispetto ai cambiamenti che sappiamo generare nel campo dell’economia e delle abitudini socio/culturali. Un mancato sincronismo che ci pone gravi problemi di sostenibilità, da qualunque lato la si guardi.