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La frattura nel mondo del lavoro

In Ponti di vista on Maggio 3, 2024 at 12:09 am

[articolo pubblicato su Il T il 30 aprile 2024, di Anna Benazzoli, Cecilia Bighelli, Emanuele Pastorino, Federico Zappini]

Viviamo una frattura legata al modo in cui lavoriamo. Riguarda il peso delle ore che destiniamo ad ottenere un salario e l’influenza che queste hanno sul resto delle nostre vite. Questa frattura riguarda, in modi molto diversi e che seguono le linee di faglia delle molteplici forme del privilegio, le professioni culturali e quelle sociali, il lavoro operaio, quello impiegatizio e persino quello micro-imprenditoriale, le dinamiche di matrice coloniale e quelle di genere. Negli ultimi anni emerge con con grande evidenza il tratto che unisce le fughe all’estero di intere generazioni (da qui come da molti altrove verso qui) e le grandi dimissioni, le proteste dettate dallo sgretolarsi della promessa – non mantenuta, anzi, falsa – della garanzia di benessere per tutte/i e la rassegnazione di tante/i che vedono diventare costante e profondo il senso di precarietà.

Il modo in cui lavoriamo è causa e conseguenza di molto del nostro mal-essere, parte di un sistema diseguale – in modo intersezionale e diffuso, tanto nelle sue dinamiche locali quanto in quelle globali – dal quale fatichiamo terribilmente ad uscire. Visto il ruolo che ha in rapporto al tempo delle nostre vite, riflettere sul modo in cui viviamo il lavoro è fondamentale. Non tanto rispetto alle azioni (ciò che facciamo, lavorando) ma piuttosto guardando alle relazioni che intratteniamo, al modo in cui questa attività finisce per influenzare la nostra vita.
Chiederci come stiamo è davvero importante. In che modo il nostro stato di salute è diretta conseguenza del nostro lavoro? Visto che, oggi, l’assenza di lavoro è ancora un pericolo più grande (la mancanza di reddito scollegato dal lavoro la rende tale), non possiamo non domandarci se esiste un modo per risolvere quelle cause strutturali che ci fanno stare così male, in relazione all’impegno lavorativo cui siamo chiamati.

Non si tratta della solita lamentela né di un desiderio di ferie perenni (o forse anche sì, ma non è questo il punto) ma l’urgenza di capire come sia possibile ridurre la distanza tra il benessere desiderato e il malessere vissuto. Insomma, il modo in cui gestiamo il nostro tempo ha assolutamente a che fare con la maniera in cui lavoriamo. Come possiamo occuparcene, tanto individualmente quanto collettivamente? Da una parte gli studi sull’efficienza di settimane lavorative corte (a parità di stipendio) stanno aprendo la strada a sperimentazioni interessanti eppure passiamo moltissimo tempo al lavoro e moltissimo di questo tempo è condiviso con altre persone. Di che relazioni si compone questo spazio di convivenza e collaborazione? Possiamo partire da queste relazioni per immaginare, insieme e in modo conflittuale, un lavoro diverso? Come impatta sull’amore, sull’amicizia e sul modo in cui viviamo le nostre emozioni? Come riusciamo ad immaginare rapporti generativi, dentro un tempo che intendiamo (almeno un po’) liberato?

Accanto alla nostra specifica esperienza lavorativa, queste domande chiamano in causa anche i modelli organizzativi in cui siamo coinvolte/i: una società che mette la produzione al centro del suo orizzonte valoriale finisce inevitabilmente con l’essere influenzata dai modelli organizzativi dei luoghi che quella produzione la devono garantire. Se oggi – e in questa parte di mondo – ragioniamo sulla possibilità
di decelerare itempi del lavoro, dobbiamo comunque chiederci: sulle spalle di chi lo stiamo facendo? Se il modello organizzativo in cui siamo immerse porta comunque a riversare gli effetti negativi del nostro benessere su altre persone – qui e altrove allora probabilmente quel benessere non è una soluzione.

Allo stesso tempo, decelerare i tempi organizzativi, in particolare approfondendo quelli dedicati all’intelligenza collettiva, può aiutare a recuperare energie che rilanciano il protagonismo delle persone, dentro e fuori il luogo di lavoro. Come evitiamo di farlo a scapito di altre persone? Quando abbiamo iniziato il percorso di Lavorare. Perché? abbiamo ripreso le parole di Jennifer Guerra che, nel suo Capitale Amoroso, segnalava come “le nostre vite si sono trasformate in progetti di cui siamo gli unici responsabili, sia che finiscano bene sia che falliscano” e ribadivamo l’ovvio: “costruire il proprio progetto di sé come se fosse un progetto di lavoro non è sano. Svegliarsi alle 3 di mattino con la frenesia del rischio d’impresa non è sano. È brutto: alle 3 del mattino vogliamo dormire, vogliamo amare, vogliamo divertirci. Svegliarsi con il rischio significa svegliarsi con il ricatto di non avere una retribuzione: è una cosa pericolosissima”.

Dentro questo scenario affaticato, sopravviviamo a stento. Abbiamo bisogno di uscirne, di “riconoscere valore nel lavoro buono, nella vita bella”. Forse, da questo punto di vista, è ancora una volta una questione di responsabilità, di presa di coscienza e di azione. L’impegno comune di dar vita a un nuovo paradigma economico e sociale che si basa sulla cura, collettiva e diffusa.

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