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Attorno all’area Sequenza. Una città che deve disegnare il suo futuro.

In Ponti di vista on Maggio 10, 2024 at 7:27 am

UNA CITTA’ IN MOVIMENTO. Quando nell’autunno del 2019 mi sono candidato per il Consiglio comunale di Trento molti e molte mi ripetevano che alcune aree della città rischiavano di rimanere ancora per molti anni su un binario morto, prevedendo sul lato dell’urbanistica una consiliatura di transizione. 

Dopo quattro anni lo scenario è molto diverso. Molte tessere si sono mosse. In parte sotto la spinta, non sempre ordinata, delle risorse del PNRR successivo alla crisi pandemica del 2019. Si pensi alla tanto discussa circonvallazione ferroviaria, ma anche – su scala più ridotta – alll’hub intermodale in realizzazione all’ex Sit. A questo impulso esterno si è aggiunto il desiderio dell’amministrazione in carica di sfruttare la finestra di opportunità apertasi, anche qui non senza contraddizioni, per riorganizzare brani di città che per decenni avevano faticato a trovare una destinazione. L’area San Vincenzo, l’ecosistema del Monte Bondone, le superfici della Destra Adige, in futuro l’areale ferroviario.

Certamente dimentico qualcosa.

Forse è presto per dire se l’esito parziale di questa corposa movimentazione sia un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, ma è evidente che al momento il compito di noi amministratori è quello di essere accompagnatori e garanti – insieme appassionati e prudenti – dei processi di trasformazione che si sono messi in moto.

ATTACCO AL CIELO E SENSO DEL LIMITE. E’ dentro questo contesto e con questo approccio che credo si debba guardare al piano guida presentato in questi giorni per l’area Sequenza a Trento nord. L’architetto Bortolotti illustrando il progetto – che non può e non vuole passare inosservato nelle dimensioni e nell’immaginario scelti – ha parlato di un “attacco al cielo” che intende ridisegnare il rapporto con l’altezza rimasto fermo all’idea di Marcello Vittorini e ai suoi 16,5 metri di quota massima.

In tale sottolineatura – che ha preso il Campanil Basso come suo simbolo – oltre a rintracciare la necessità di cercare un corretto equilibrio con il paesaggio circostante si può anche cogliere lo spunto per far tesoro di alcuni principi cardine dell’andare per monti, applicandoli alla pianificazione urbanistica.

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Il nostro bisogno di Europa. L’agenda per un impegno collettivo.

In Ponti di vista on Maggio 9, 2024 at 8:24 am

Manca un mese al voto per le elezioni europee. Esaurita la trafila che ha portato alla composizione delle liste è bene concentrarsi ora sui temi che dovrebbero costituire l’agenda politica del prossimo quinquennio (almeno, per dotarsi di una minima prospettiva) del percorso comunitario. 

Per evitare di ridurre l’esito della consultazione del prossimo giugno a un sondaggio interno alla sfida tra partiti e leader alle prese con il bisogno settimanale di verificare l’andamento del proprio consenso faremmo bene a leggere con attenzione i dati contenuti nel report pubblicato dal Censis (intitolato Lo stato dell’Unione) e ad agire di conseguenza.

Il documento – che fa riferimento a dati Eurostat raccolti nei 27 Stati membri – ci restituisce due informazioni principali, che contribuiscono a produrne una terza. La prima è che l’Europa da quindici anni a questa parte (2007/2023) conta meno sia sul fronte demografico (dal 6,5% al 5,6% della popolazione mondiale, con un progressivo invecchiamento dei propri abitanti) che su quello economico (il PIL europeo sul totale planetario è passato dal 17,7% al 14,5%). Contestualmente a questi due andamenti possiamo osservare quello che il Censis definisce declassamento sociale, ossia – nello stesso lasso di tempo – la variazione negativa dei redditi pro capite per cittadini e cittadine europei. Un fenomeno che, con particolare riferimento ai paesi dell’est e del sud del continente, ha colpito 150 milioni di europei (circa il 30% del totale) precarizzandone l’esistenza nel presente e la speranza nel futuro. La Provincia di Trento risulta tra i venti territori con un risultato peggiore, frutto di una perdita di oltre il 14% – a costo della vita crescente, e non di poco – in termini di reddito disponibile netto pro capite nel periodo 2007/2021.

Non c’è da stupirsi che tale condizione di incertezza finisca per generare (non da sola) una crescente sfiducia nelle istituzioni europee, sotto il 50% di media nell’intera Eurozona, e l’ampliarsi della fascia degli astenuti, oltre il 45% nel 2019.

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Contro le tensioni mondiali, la pace sia utopia concreta

In Ponti di vista on aprile 14, 2024 at 10:58 PM

Articolo pubblicato su Il T, domenica 14 aprile 2024

Sono passati sei mesi dai feroci attacchi condotti da Hamas in alcuni kibbutz israeliani posti a nord della Striscia di Gaza. Le immagini di quelle ore, testimonianza di violenze efferate, ci hanno raggiunto lasciandoci sgomenti. 

Un tale carico di violenza non ha impiegato molto ad attivare i suoi effetti nefasti. Nei centottanta giorni successivi, e anche ieri nella giornata in cui anche a Gaza terminava il periodo di Ramadan, davanti ai nostri occhi si è dispiegata la reazione militare dello Stato d’Israele su di un fazzoletto di terra (360 kmq di estensione, venti volte meno della provincia di Trento) nella forma di una sproporzionata azione militare che anche in questo caso ha visto come vittime ampiamente maggioritarie – tra le oltre 30.000 che contiamo fino ad ora – uomini, donne e bambini con nessuna altra “responsabilità” oltre a quella di essere nati e cresciuti in uno spicchio sbagliato del Mondo, tormentato da indicibili sofferenze senza un impegno sufficiente per cambiarne il destino e per intraprendere un percorso credibile di pacificazione e giustizia.

Oggi ci sono tristemente familiari – dopo anni di sguardo colpevolmente rivolto altrove – il posizionamento dei valichi di ingresso a Gaza (Erez a nord e Rafah verso l’Egitto), i nomi delle città che compongono la Striscia (le martoriate Gaza City e Khan Yunis su tutte) e degli ospedali bombardati (Al-Shifa), le storie delle organizzazione che più si sono spese in un contesto così difficile, come nel caso di World Central Kitchen che ha perso recentemente in un raid sette dei suoi operatori sul campo.

L’attacco del 7 ottobre e i successivi assedio e invasione della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano non si inseriscono però in un tempo neutro e privo di criticità, di fatiche e di conflitti. 

Anzi. 

Il caos che osserviamo oggi è istantanea fedele della storia recente di un Pianeta che subisce con eccessiva frequenza “infarti” politici e militari, ecologici e umanitari che ne minano gravemente la stabilità e la prospettiva. Ogni volta che – ricordando le tragiche sorti del Novecento – ci promettiamo“mai più”dobbiamo premurarci che tale affermazione non si riduca a formula retorica ma corrisponda invece all’applicazione concreta di una memoria generativa, capace di imparare dal passato perchè non si ripetano gli stessi errori nel presente e nel futuro.

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Un carcere diverso è possibile.

In Ponti di vista on marzo 16, 2024 at 8:04 am

– articolo pubblicato su Il T, venerdì 15 marzo 2024 –

Affermava Voltaire che “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. E’ una massima che – da quando ho memoria – viene richiamata a mo’ di monito per sottolineare la condizione di precarietà (per usare un eufemismo…) delle carceri italiane.

La si trova utilizzata per denunciare l’inaccettabile sovraffollamento delle strutture detentive (l’Unione Camere penali Italiane ci dice che sono 60.637 le persone oggi detenute a fronte di 51.347 posti ufficiali, dei quali però alcune migliaia indisponibili) o per far riferimento all’alto tasso di recidiva – attorno al 70% per chi transita per le celle italiane – che è il prodotto del fallimento della dimensione rieducativa della pena, che invece è il cuore dell’art.27 della Costituzione.

Parlare della crisi del sistema detentivo italiano diventa ancora più doloroso e urgente nel momento in cui si fanno i conti con il numero di suicidi (l’associazione Antigone ne conta 24 da inizio anno, tre nelle ultime 72 ore, due di ragazzi poco più che ventenni) a cui vanno aggiunti un numero infinitamente più alto di atti di autolesionismo che pratica chi si trova costretto dietro le sbarre. 

Che fare allora se la fotografia della situazione è così evidente ed esposta, tanto da rischiare denunciandola senza agire di conseguenza per un suo miglioramento di scivolare nella sterile retorica? 

In primis sarebbe utile tornare a condividere l’idea che il carcere va inteso come l’ultima soluzione lì dove ci siano condizioni tali da necessitare una netta e continuativa separazione tra la società e chi commette un reato. Per le altre fattispecie – la stragrande maggioranza dei casi – vale invece la già richiamata tensione primaria al reinserimento sociale, alla capacità di utilizzare la durata della pena come spazio per la riconnessione tra l’individuo temporaneamente privato della libertà con le sue comunità di riferimento. 

Meno detenut3 e migliori percorsi sociali loro dedicat3 dovrebbe essere la stessa polare verso cui orientare l’impegno politico e amministrativo. 

Peccato da questo punto di vista che l’idea del Governo in carica si ponga esattamente all’antitesi, guidata com’è dall’illusione che il moltiplicare il numero di reati punibili (per i rave party, per le manifestazioni ambientaliste, ecc.) e il conseguente aumento di persone a cui sia ristretta la libertà possano produrre maggiore sicurezza. Se concentriamo l’osservazione ad esempio alla questione delle fragilità e delle conflittualità giovanili, tema di grande attualità negli ultimi mesi, abbiamo oggi il numero più alto di minori reclusi da diversi decenni a questa parte – più di 500, in costante crescita dopo il cosiddetto decreto Cainvano -. Ragazzi e ragazze su cui lo Stato applica una sorta di “vendetta sociale” invece che dedicarsi nella costruzione di percorsi di sviluppo individuale e collettivo orientati alla legalità e alla partecipazione attiva alle dinamiche comunitarie. 

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Il lavoro al centro. Ma di che lavoro stiamo parlando?

In Ponti di vista on febbraio 4, 2024 at 10:45 PM

Cos’è il lavoro oggi? Ce lo siamo chiesti a dicembre all’ex Manifattura Tabacchi a Rovereto, insieme a oltre cento persone interessate all’argomento. Persone diverse – sindacalisti, amministratrici, lavoratori, studentesse, attivisti, ricercatori… – pronte a interrogarsi sul senso del lavoro oggi, su quello che è e su quello che potrebbe non essere (più) in grado di garantire e generare.

Lavorare, per te, cos’è? Lo chiedeva pochi giorni fa anche Francesca Coin, autrice del libro Le Grandi Dimissioni, sulla sua pagina Facebook. Sotto il suo post una valanga di risposte – oltre 350, che vale la pena di leggere – a cui lei a un certo punto ha risposto con un: “lo so, è una domanda difficile, che di solito i marxisti liquidano con una smorfia, i conservatori pretendono di trasformare in identità, e invece la vita, come al solito, è più complicata”.

Una parte maggioritaria della nostra esistenza si passa lavorando. Diversamente dal passato, oggi è venuta meno la convinzione che quello sia l’elemento su cui si debba fondare la nostra società. Il sistema che questa idea ha prodotto è entrato in crisi, anche a partire da una consapevolezza sempre più diffusa: molti dei lavori che facciamo oggi non hanno più senso. Non lo hanno perché restituiscono basse retribuzioni, livelli di malessere crescente, sensazione di solitudine costante, poco tempo per dedicarsi alle cose che ci fanno davvero stare bene. Un insieme di problemi materiali che si unisce a una più generale sensazione che il lavoro che svolgiamo non contribuisca in nessuna maniera a dar forma a quell’idea di mondo che ci immaginavamo migliore perché più giusto, più equilibrato, più felice.

Agiamo quindi per sottrazione (chi può farlo, sapendo che anche dimettersi è in un certo senso un privilegio non garantito a tutte e tutti), scegliendo di allontanarci da contesti insani, ipercompetitivi, estrattivi, che si fondano su rapporti di forza sbilanciatissimi. Lo facciamo – in una sorta di sciopero non dichiarato, ma ampio e potente – per riappropriarci collettivamente di quattro elementi: un tempo liberato, una diversa narrazione slegata dal reddito da lavoro, uno stare bene che non è privilegio, ma diritto, un noi attorno a cui riconoscersi e lottare. 

Lo facciamo pensando possano esserci delle soluzioni, complesse, ma realizzabili. 

RECUPERARE TEMPO. Il tempo libero è quasi del tutto scomparso e il lavoro è ovunque: le mail arrivano a tutte le ore, la tecnologia è onnipresente. Quella per il tempo diventa allora un’attenzione da coltivare e su cui innestare una seconda riflessione, profondamente interconnessa alla prima: quella sui salari. Perché rinunciare al tempo per soldi, a livello negoziale, significa lavorare contro i nostri stessi interessi; ce lo dobbiamo reciprocamente ricordare, talvolta per difenderci anche da noi stesse. La settimana corta (a parità di riconoscimento economico) alla quale guardano oggi con attenzione – non solo lavoratrici e lavoratori, ma anche aziende e datori di lavoro -può essere allora una soluzione attorno a cui convergere, tanto per cominciare. 

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La Politica alla prova dello straordinario e dell’essenziale | un invito all’impegno comune

In Ponti di vista on gennaio 6, 2024 at 3:09 PM

“La speranza è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia accadere”
Cecely Saunders

Questo documento è frutto di diversi sentimenti. 

Ci sono la stanchezza e il senso profondo di solitudine, la preoccupazione nei confronti di ciò che ci circonda (guerre, crisi climatica, disuguaglianze, fragilità delle reti sociali, spaesamento) che pesa fin quasi a diventare un fardello insopportabile. 

E poi ci sono – ancora vive, per fortuna, nonostante tutto – la speranza di poter contribuire al cambiamento necessario e l’urgenza di farlo accadere, velocemente nel tempo e nel modo giusto, ossia coinvolgendo più persone possibile nell’azione di trasformazione della realtà che, è sotto gli occhi di tutti, non volge al meglio in quasi nessun campo…

Per molte e molti di voi le argomentazioni che trovano spazio in queste pagine non suoneranno nuove perchè già affrontate in mille precedenti conversazioni. Mi serviva comunque provare a riordinarle, come appunti che tentano se messi in fila a garantire una mappa sufficientemente precisa – pur se in continuo movimento, disordinata come è disordinato il Mondo – delle sfide cui dobbiamo predisporci e delle urgenze a cui dobbiamo far fronte per ridare senso e centralità, ognuno e ognuna per la propria parte, all’azione politica, amministrativa, sociale e culturale che ci vede a vario titolo coinvolti.

Le categorie dello straordinario e dell’essenziale a me sembrano propizie per confermarci il compito di far viaggiare in parallelo la costruzione di una visione adeguata al cambio d’epoca in atto e la capacità di rispondere materialmente alle esigenze primarie (che mal contate stanno sulle dita di una mano…) delle comunità di cui facciamo parte e di cui vogliamo prenderci cura.

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Si fa presto a dire casa

In Ponti di vista on dicembre 15, 2023 at 9:35 am

(editoriale pubblicato sul quotidiano Il T, giovedì 14 dicembre)

Casa è una delle prime parole che ogni bambinə pronuncia iniziando a sperimentare il proprio linguaggio nascente. A distanza di pochi anni quelle due sillabe diventano disegno: un tetto e la porta, le finestre e un camino, un albero in giardino. Un abbozzo di progetto, a guardar bene. Casa è uno dei concetti con cui entriamo più spesso in relazione. Non possiamo farne a meno. La casa è infatti uno degli elementi essenziali (insieme a salute, istruzione, lavoro, relazioni, poco altro…) che costituiscono le fondamenta di un’esistenza degna di essere vissuta. Casa è quel luogo che immaginiamo capace di offrirci protezione e accoglienza.

A valle dell’immagine semplificata che ne diamo in giovanissima età e del basilare quadro teorico proposto poco sopra il diritto all’abitare sta vivendo un tempo di crisi profonda. Qualche settimana fa l’architetto Alberto Winterle segnalava – auspicando un nuovo paradigma per dare forma all’abitare sociale – come un punto di rottura nel nostro rapporto con la casa vada rintracciato nel momento in cui “la domanda di abitazione, intesa come necessità di un bene primario, ha trasformato quello che doveva essere un valore d’uso in un modello di consumo”. Da spazio della sicurezza sociale e della costruzione primaria di comunità a leva della rendita finanziaria e della speculazione edilizia.

Le biografie personali – che sommate tra loro fanno statistica, fotografia di una società – sono quelle che ci raccontano le linee di faglia dentro cui la crescente tensione abitativa moltiplica le fragilità sociali e mette in dubbio per troppe e troppi la garanzia di un tetto e la possibilità di sviluppare attorno alla certezza di un’abitazione la propria traiettoria di vita. Le diverse storie raccolte in questi mesi ci restituiscono una condizione generalizzata di difficoltà – abitare stanca! – che tocca parti sempre più ampie di popolazione e che non accetta più un approccio emergenziale ma richiede la predisposizione di un piano casa provinciale, e a caduta territoriale, che si faccia carico della varietà di bisogni abitativi.

Lo dobbiamo alle famiglie sgomberate dall’ex Sloi oltre un mese fa (gli stessi nuclei da oltre quindici anni a questa parte…) e alle decine di persone che ancora, in assenza di una programmazione pluriennale degna di questo nome, non trovano un posto nei dormitori notturni, per le quali l’orizzonte dell’housing first – una casa prima di tutto, come ingrediente minimo per sentirsi parte di una comunità – è ancora un miraggio. 

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Globale e locale. Alla ricerca di un porto sicuro, per tutti.

In Ponti di vista on agosto 10, 2023 at 4:31 PM

Partecipare vuol dire che ciò che avviene attorno a noi – vicino o lontano che sia – ci riguarda. Essere solidali significa prestare attenzione a chi rischia di rimanere indietro, non accettando che di fronte a un’ingiustizia a prevalere sia l’indifferenza.

E’ partendo da questa doppia convinzione che ci è sembrato importante [come gruppo consiliare di Futura] portare all’attenzione del Consiglio comunale di Trento un documento – in forma di mozione – che legasse la dimensione globale dei fenomeni migratori con quella più strettamente locale nella consapevolezza che l’interconnessione tra i due piani è impossibile da sciogliere.

I dati sono il segno più tangibile che ci impone di agire. Il Missing Migrants Project quantifica in 29.970 le persone (uomini, donne e bambinə) che hanno perso la vita nel Mar Mediterraneo dal 2014 ad oggi, a cui vanno aggiunti i quasi 13.000 decessi avvenuti nel pericoloso avvicinamento alla traversata.

E’ una contabilità imprecisa perchè la possibilità di monitorare le rotte e gli incidenti è ridotta e spesso ostacolata, quasi che il fatto di non poter vedere il dolore ci permettesse di ridurne – o negarne – l’insopportabilità morale e politica. Non è dato sapere con precisione quanti siano, ad esempio, i migranti che il presidente tunisino Kaïs Saïed (negli stessi giorni dell’accordo stipulato con il governo italiano e con l’Unione Europea) abbia deciso di abbandonare al proprio destino nel deserto al confine con la Libia.

Si è deciso – ormai da decenni – di appaltare ad altri, esternalizzando, la gestione delle frontiere comunitarie. Lo si è fatto non preoccupandosi delle violazioni dei diritti umani di chi contro quelle barriere è costretto a impattare e dell’insostenibilità di un paradigma di gestione dei flussi che prevede solo la dimensione di controllo e repressione.

Va trasformato completamente questo approccio, adeguandolo ad un cambio d’epoca in cui il movimento degli essere umani è e sarà un tratto distintivo, tanto da portare il sociologo Stefano Allievi a parlare di un sesto continente – non geografico, ma umano – composto da chi sopra i confini si muove in cerca di una destinazione e di un destino.

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La casa stanca. La casa attiva. La casa è un diritto.

In Ponti di vista on luglio 20, 2023 at 6:06 PM

Il diritto all’abitare insieme a quello all’istruzione e alla salute – oltre alla possibilità di vivere una vita dignitosa e sicura grazie alla tenuta degli strumenti del welfare state – sono le fondamenta minime, e irrinunciabili, su cui poggia qualsiasi possibilità di coesione e convivenza comunitaria. Senza siamo ci sentiamo persi e insicuri, come singoli e come società.

Quando qualche mese fa insieme a diverse altre realtà cittadine che si occupano di politiche abitative ci siamo incontrati abbiamo preso in prestito il titolo di un prezioso libro della ricercatrice Sarah Gainsforth: Abitare stancaCi siamo accorti, tramite la condivisione di esperienze, di una difficoltà generalizzata nell’accesso alla casa da parte di un platea vasta di categorie: famiglie e single lavoratori, richiedenti asilo e cittadini fragili, studenti universitari e migranti.

Una situazione certificata da un numero significativo di sfratti in attesa di essere eseguiti (un emendamento al Bilancio provinciale presentato dal consigliere Zanella ne chiede una temporanea moratoria, almeno sul lato Itea), la crescita parallela di sofferenze su mutui e fidi (in Regione si calcolano più di 200 milioni di € di crediti deteriorati) e del peso delle spese per l’affitto nell’economia famigliare dei cittadini (per una famiglia su dieci vale più del 40% del cumulo dei redditi a disposizione, dato ISPAT).  

E’ del tutto evidente, parallelamente, che sono inadeguati gli strumenti per facilitare l’incontro tra domanda e offerta– sul prezzo, sulle garanzie offerte alle parti, sulla convivenza da garantire -, che persiste un numero troppo elevato di immobili non utilizzati (nell’ordine di diverse migliaia sul territorio provinciale) e che l’impatto delle locazioni turistiche brevi e brevissime è in diversi contesi – la città di Trento, le valli più turistificate – totalmente fuori controllo, con esiti nefasti sul già precario equilibrio del mercato abitativo.

A fronte della stanchezza di cui sopra ci siamo però accorti che la casa – intesa come elemento materiale e relazionale, fondamento del vivere associato – è anche infrastruttura sociale per la quale sono in tante e tanti a mettersi in gioco, a mobilitarsi, a creare alleanze, a elaborare proposte, a immaginare strategie di intervento generative. Abitare attiva, quindi. 

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